Scienze
Sapiens, il gregge immune al vaccino
Mentre il nemico invisibile cerca spazi interstiziali per toglierci l’ossigeno vitale e asfissiarci nell’anidride carbonica di scarto, l’umanità si unisce in una corsa globale alla ricerca delle armi idonee a sconfiggere Thanatos. Una medicina che mitighi gli effetti quando il Coronavirus ha già colpito, o il ben più prezioso santo graal di un vaccino che al virus chiuda ogni porta di accesso alle nostre funzioni vitali.
Eppure, a ben guardare chi sta davvero correndo per trovare la cura e come questa potrà essere messa a disposizione di miliardi di persone (questa la sfida nella sfida), viene da riflettere profondamente su quanta strada dobbiamo ancora fare per sviluppare una coscienza collettiva, che sovrascriva il nostro DNA (questa tecnicamente è l’evoluzione della specie). Lo stesso DNA che ci ha mantenuto per millenni in cima alla catena alimentare, ma che nell’ultimo secolo ha prodotto modelli socio-economici non sostenibili per narcisismo, autoreferenzialità e speculazione irresponsabile di chi siede in cima alla piramide della distribuzione dell’immensa ricchezza che sappiamo produrre, grazie ad uno sviluppo tecnologico ed una accelerazione digitale senza precedenti.
Punto uno. La corsa alla cura rappresenta il miglior tentativo possibile di comprimere i tempi di sviluppo di un vaccino che normalmente viene sintetizzato in 10 anni di ricerca. Per questo la migliore delle ipotesi di riuscita ci dice che l’elisir di lunga vita sarà disponibile in maniera diffusa non prima della fine del 2021. Sì, 2021. Non solo questo tipo di ricerche è soggetto a fallimenti e tentativi come è normale che sia (mediamente il 6% il tasso di successo), ma l’intelligenza medica che da qualche mese ci si dedica, è arrugginita sui virus, per debellare i quali la ricerca è stata abbandonata da tempo, perché non remunerativa per le case farmaceutiche.
Fine 2021 è un pugno nello stomaco per l’umana tensione di vedere una luce in fondo al tunnel del 2020, ma razionalmente comprensibile se guardiamo la scala del problema. Quand’anche il vaccino sarà finalmente vittoriosa realtà dei laboratori di case farmaceutiche tarate sulla produzione di qualche milione o decina di milioni per ogni tipo di farmaco, qui si tratta di produrre qualche miliardo di dosi. Gli stabilimenti produttivi vanno costruiti per una domanda del genere. Anche quelli per il materiale che renda trasportabile l’elisir in ogni angolo del globo: le fiale di vetro, come ha ammonito recentemente lo stesso Bill Gates, che nel 2015 aveva addirittura preconizzato la pandemia.
Punto due. La ricerca non remunerativa per il profitto è argomentazione che la diffusione globale del Coronavirus ha dunque cancellato. L’umanità è sotto attacco e tocca dunque ai governi scalare. Ma quelli che dovrebbero essere i custodi della coscienza collettiva ed i gestori della cosa pubblica (res publica), sono esseri umani sull’eterna altalena tra l’etica del senso civico e la venalità degli interessi di cui una certa politica e geopolitica è groviglio inestricabile. Ebbene se i governi – e con loro numerose fondazioni – si sono fatti carico dei costi della ricerca del vaccino (compresi i lauti profitti di chi produrrà il vaccino), pretendono anche di esserne i primi beneficiari, esaltando un nazionalismo o personalismo che contrasta con la globalità del problema.
Quindi chi arriva prima si cura per primo? E quei governi che non dispongono di aziende farmaceutiche in grado di partecipare attivamente alla ricerca? Non più tardi dello scorso 1 Maggio, l’assistant attorney general per la sicurezza nazionale USA, John C. Demers ha detto: “Putting aside the commercial value, there would be great geopolitical significance to being the first to develop a treatment or vaccine. We will use all the tools we have to safeguard American research“. Gli ha fatto eco il CEO del Serum Institute indiano (il maggiore produttore mondiale di vaccini per numero di dosi prodotte): “most of our vaccines would have to go to our countrymen before it goes abroad”. Alla faccia della coscienza collettiva e di una distribuzione del vaccino che metta in fila l’umanità secondo criteri globali di bisogno e utilità collettiva e non nazionalismi e profitti. E in fondo anche di una considerazione più banale, ma non per questo meno ficcante: distribuendo il vaccino prima a chi ne ha meno bisogno e solo dopo alle popolazioni più esposte, non si farebbe che allungare la coda della pandemia.
Ho sperato, e spero ancora come tanti, che una delle opportunità del Coronavirus da cogliere al volo sia una spallata verso l’alto alla nostra coscienza collettiva, che apra ad una sostanziale revisione dei modelli economico-sociali di cui il virus ha smascherato la fallacia dell’etica e della sostenibilità. Ovvero un’accelerata insperata all’evoluzione della nostra specie, il cui tempo scorre normalmente placido, inesorabile e a velocità costante.
Mi rendo invece conto che alla rete di egregie (letteralmente ex-grege, fuori dal gregge) intelligenze che stanno lavorando alla soluzione tecnica del problema, fa da pesante contraltare un gregge immune alle singolarità evolutive, sordo ai campanacci dell’offerta virale di comprimere i tempi della nostra crescita come sapiens.
Vorrei che la soluzione fosse generazionale e che nuova linfa di giovani cervelli e fresche coscienze potesse arricchire e rinfrescare velocemente la nostra capacità di pensiero e la nostra abilità a rimanere in cima alla catena alimentare. Cosa che ci è stata possibile fino ad oggi, come ricorda il sociologo Yuval Harari, grazie alla capacità di cooperazione che ci distingue dalle altri specie. Cooperazione abilitata dall’immaginazione, la capacità di parlare ed aggregarci intorno a cose che non esistono in natura, come le divinità, le nazioni le leggi e i soldi. Che forse hanno fatto il loro tempo, così come le conosciamo.
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