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Spetia (Radio24): I politici usano la rete per evitare il contraddittorio
24Mattino la trasmissione di Radio24 dedicata alla rassegna stampa, per anni affidata ad Alessandro Milan, dopo una parentesi prima con Luca Telese e poi con Maria Latella, passa a Simone Spetia, cresciuto a Roma, milanese di adozione, da vent’anni lavora a Radio24. Non è stato facile contattarlo, l’intervista risale al 6 giugno scorso, presso gli studi da dove trasmette ogni mattina alle ore 6.30 e dove divide, per una parte, il microfono con Paolo Mieli. Insieme, come lo stesso Spetia dichiara, cercano di “aggiungere qualcosa alla conoscenza dei fatti” offrendo un’analisi e una lettura più ampia oltre a raccontare cose giudicate “laterali” dalla stampa dei principali quotidiani. Ecco la sua storia.
Iniziamo dagli esordi, quando hai capito di voler fare il giornalista e quali sono state le tue prime esperienze, ante Radio24?
Sono il classico giornalista figlio di giornalisti, però inizialmente ho percorso un’altra strada e mi sono iscritto a Roma alla facoltà di Giurisprudenza, ai tempi della famosa ondata degli anni ’90 figlia di Tangentopoli, convintissimo che la professione legale rappresentasse il futuro. In facoltà eravamo tantissimi, ci si svegliava alle cinque per andare a seguire le lezioni. Poi, per una banale questione di indipendenza e la volontà di avere qualche soldo, ho iniziato a lavorare per una società che faceva rassegna stampa, dove mi occupavo della parte pratica. Non facevo selezione, correva l’epoca del “taglia, ritaglia e incolla”, metti su un foglio e poi fotocopia: ero un disastro, come in quasi tutti i lavoretti pratici, dalle elementari al liceo. Successivamente ho iniziato a collaborare con l’AGA, un’agenzia di stampa che faceva servizi nazionali per tutta una serie di giornali locali. Ho avuto la possibilità di fare uno stage al Tg5 di Mentana, poi mi hanno chiamato per una sostituzione estiva e infine per una maternità. Col terzo contratto avrebbero dovuto assumermi, ma pescarono giustamente dalle liste di giornalisti precari o disoccupati. E sono andato in Calabria a lavorare per un giornale che si chiamava Il Domani. Infine, mi è arrivata l’offerta del Sole 24 Ore, precisamente da 24ore.tv, e così sono entrato nel Gruppo.
Come è nata l’idea del Gazzettino del Risorgimento?
Quella è stata un’idea mista. Con Paolo Piacenza, un collega di Torino bravissimo, che stava facendo una sostituzione da noi, ci siamo detti: “Perché non realizziamo una trasmissione per i 150 anni dell’Unità d’Italia?” e abbiamo presentato il progetto al Direttore di allora, Fabio Tamburini. In questo progetto c’erano, tra le altre cose, le interviste agli storici e in mezzo un prodotto di 3/4 minuti per il quale avevamo pensato ad un giornale radio ambientato storicamente. Fabio Tamburini disse: “È questo il pezzo bello, teniamolo. Riuscite a farlo quotidiano?” Non immaginando di cadere nel delirio più completo abbiamo risposto di sì. Così è nato il progetto: da una nostra idea all’interno di una trasmissione settimanale trasformata in appuntamento quotidiano. grazie all’illuminazione di Fabio. Funzionò benissimo, inserito nell’area del GR in un orario di alto ascolto.
Nella tua biografia su LinkedIn, scrivi di aver condotto e realizzato la prima e unica trasmissione dedicata al rapporto fra politica e rete: #Votantonio. Cosa è cambiato, se qualcosa è cambiato, in questi ultimi 10 anni?
Alcune cose sono cambiate molto, altre molto poco. La prima cosa che è cambiata molto è stato l’utilizzo massiccio della rete da parte della politica, che risponde all’esigenza spesso citata della disintermediazione, in pratica parlare con il proprio pubblico senza passare dalla mediazione giornalistica. Questo consente alla politica, e a chiunque sfrutta questo meccanismo, di non rispondere alle domande. Puoi dire la tua con grande serenità, senza contraddittorio. L’esigenza è quella di creare consenso e parlare al proprio pubblico di riferimento, fornendo spiegazioni ai cittadini in merito a scelte fatte, basate sulla propria valutazione politica. E di farlo – vantaggio non indifferente – senza la compressione di tempi e modi di uno spazio televisivo, radiofonico o su un giornale. È diventato un fenomeno massiccio e ha avuto un’esplosione con la pandemia. Forse per la prima volta nella storia, un Presidente del Consiglio – e mi riferisco a Giuseppe Conte – ha scelto Facebook per le comunicazioni ai cittadini in uno dei momenti più critici della storia repubblicana recente, quello dei morti, degli ospedali pieni e dei lockdown. C’erano anche il canale YouTube della Presidenza del Consiglio e i giornali, ma il luogo primario dove venivano date le informazioni era Facebook. È mancata, però, l’interazione: i social network si chiamano così perché presuppongono una relazione, un rapporto sociale. Ci sono alcuni politici che rispondono sui social: mi viene in mente Andrea Orlando che lo faceva anche da Ministro, così come Carlo Calenda che lo fa anche troppo. In generale c’è però questa tendenza ad utilizzare i social network come puro deposito del proprio messaggio. Inserisco il messaggio e me ne dimentico. Al limite ci sarà una squadra di social media manager che provvederà a rimuovere i commenti fastidiosi o a inserire commenti favorevoli.
Quando ho intervistato Alessandro Milan ha ammesso che uno degli aspetti più difficili da affrontare nella conduzione di 24Mattino è la levataccia alle cinque. Tu, fra i successori di Milan, sei quello che sta durando di più. Qual è il segreto?
Il primo segreto è che mi piace, mi diverto. La sveglia è devastante, io mi sveglio anche prima di Alessandro perché sono fatto diversamente e compongo le cose in una maniera diversa rispetto a lui. O forse non sono bravo come lui. Oppure mi alzo prima perché mi piace fare le cose con calma. Mi diverto, mi piace l’interazione con gli ascoltatori quando hanno qualcosa di intelligente da dire, e quando riusciamo ad azzeccare le puntate raccontando i fatti non solo in modo corretto, ma anche completo. L’obiettivo è quello di arricchire gli ascoltatori, fornendo strumenti per capire e interpretare il mondo e l’Italia, riuscendo insieme a intrattenere e divertire. Non esistono argomenti noiosi o tabù, dipende dal modo in cui vengono raccontati. Non posso pensare di parlare di un argomento come la Banca Centrale Europea in modo ostico o noioso a quell’ora del mattino. Dipende da come la racconto, da come conduco il percorso. Questa è la cosa più faticosa, a volte riesce e a volte no.
Come si fa a gestire tutto questo con tre figli?
Il vantaggio di iniziare presto al mattino ti dà la possibilità di avere al pomeriggio alcuni spazi di gestione anche se ci arrivi mezzo morto. Detto ciò, i miei figli sono abbastanza grandi, hanno 19,17 e 12 anni, quindi, ormai sono più o meno autonomi.
Come nasce la collaborazione con Paolo Mieli?
È frutto di un accordo che l’azienda aveva raggiunto con lui. Si voleva dare alla trasmissione una voce in più particolarmente autorevole. Il primo anno per me è stato oggettivamente un po’ faticoso, ma ad un certo punto le cose sono cambiate, abbiamo iniziato non solo a funzionare insieme, ma a divertirci, a entrare in sintonia. All’inizio ero un po’ imbarazzato, non sapevo come trattarlo, sai, Paolo è un principe del giornalismo. Lui era un po’ legato, poi ci siamo sciolti entrambi ed oggi conduciamo uno spazio dove mi sembra che riusciamo ad aggiungere qualcosa alla conoscenza dei fatti. Aggiungiamo connessioni tra le cose, tra le notizie, riuscendo a fornire un’analisi e una lettura più ampia, senza far mancare il racconto di cose che vengono giudicate “laterali” dalla stampa e che nella nostra idea (soprattutto in quella di Paolo) sono più rilevanti di quanto non si immagini. Questa cosa l’ho imparata da lui. Tutto il miglioramento che mi pare che ci sia stato degli spazi della trasmissione che precedono quello con lui è dovuto in larga parte a quello che mi ha insegnato. Non è stato un atto di docenza deliberato, per così dire, ma il frutto del lavoro fatto insieme, l’ascolto di come legge i fatti e come racconta le cose.
Si è da poco concluso il Festival dell’Economia di Trento. Un’edizione da record, anche sul fronte dell’audience digitale. Cosa ti ha colpito in particolare?
La gente. C’era tantissima gente, è stato bellissimo, con un clima meraviglioso di allegria, di sorrisi, la voglia e il piacere di ascoltare cose interessanti. Qualcuno ha detto che c’era un’esagerata presenza di Ministri e di politici. Vero, ce n’erano molti, ma innanzitutto non è un problema, anzi. In secondo luogo quelli che lo dicono non hanno notato tutto il resto, la miriade di appuntamenti di approfondimento, analisi e studio che si sono svolti in tutta la città. Accade in molti festival. Ho raccontato in questi giorni a più d’uno che nella mattina del sabato io, di Radio24, che faccio parte del gruppo editoriale che organizza il festival, sono stato rimbalzato da tre incontri diversi perché c’era troppa gente e non riuscivano a farmi entrare in sala.
Qual è la vera sfida per l’informazione di qualità? E in generale qual è il futuro del giornalismo?
Allora, il reportage e il racconto dai luoghi da cui provengono i fatti resta fondamentale. Ci vuole necessariamente una voce terza rispetto alle parti in causa: pensiamo semplicemente alla guerra dove bisogna valutare cosa è confermabile e cosa non lo è, non solo da parte Russa ma anche da parte Ucraina. Questi eventi sono composti anche di informazione e disinformazione e il ruolo dei giornalisti è fondamentale, non può che avvenire sul terreno, per portare alla luce storie che non si conoscono, ma ancora di più per connettere il tutto ai fenomeni globali. La questione principale, ancora una volta, è quella delle connessioni e delle analisi. Per esempio serve un giornalista per raccontare la realtà delle miniere di cobalto in Congo, da dove arriva il 70-75% del metallo, ma serve anche un giornalista che spieghi che questo cobalto entra nelle batterie dei cellulari, dei tablet, dei computer, ed è quindi necessario far notare che è in gran parte sporco. È importante saper fare l’analisi dei fatti, dare una lettura e fare una riflessione sulle notizie. È necessario un lavoro di approfondimento che aiuti ad imparare a fare una lettura critica delle notizie e per quanto possibile ad imparare a distinguere il vero dal falso. Noi giornalisti questa operazione non la possiamo effettuare realizzando un noiosissimo tutorial. Dobbiamo cercare di fornire, per quanto possibile, degli strumenti di lettura e di analisi dei fatti che ti consentano di identificare una nuova notizia sapendo a cosa fare attenzione. A mio parere la carta non è destinata a sparire, modifica il suo ruolo. Sono molto più leggibili giornali specializzati o di opinioni e analisi rispetto ai giornali generalisti tradizionali, salvo che non abbiano un pubblico globale. Il New York Times e il Guardian reggono perché hanno un uditorio globale e parlano a tutto il pianeta. Altri, soprattutto alcuni italiani, fanno maggiormente fatica, quindi chiedo: “vale la pena virare, come qualcuno già fa, su un’informazione popolare acchiappa click e copie o vale la pena cercare di costruire qualcosa di più solido?”
“Non tutti i protagonisti sono adatti per tutte le narrazioni”, così Fazio commenta la sua dipartita dalla RAI. Cosa ne pensi di questi addii, compreso quello di Lucia Annunziata, e di come certi politici ne hanno parlato?
È una domanda difficile. Se la domanda è in generale sulla Rai, non ci vedo nulla di nuovo; come ha detto Mentana giorni fa, non è una grande novità che nella TV di Stato possano comandare i partiti. Nello specifico su Fazio e Annunziata, si tratta di professionisti che prendono la loro strada e la possono prendere per ragioni editoriali: questo succede dappertutto, in tutti i luoghi nei quali c’è un azionista che sceglie un direttore. Se cambia la linea editoriale puoi benissimo non sentirti a tuo agio con questi cambiamenti e decidere di andartene. Loro sono dei professionisti, Fazio se ne andato con un signor contratto e Lucia Annunziata ha dichiarato che lì non sarebbe più stata bene. Ha deciso di andarsene punto. La politica ne ha parlato troppo.
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