Roma
A Roma la quarantena è meglio in periferia
Alla Stalingrado di Val Melaina potresti quasi dire ch’è domenica. In strada, come ovunque di questi tempi, non passa nessuno e c’è silenzio. Eppure, attorno a questi vecchi palazzi di case popolari nella periferia nord di Roma, il vuoto della strada non pare senza rimedio come altrove. Qui la città non sembra abbandonata né spaventata e sola, come invece accade in centro. Queste strade vuote non sono più un avamposto verso il nulla, come nelle sequenze di Ladri di biciclette che qui vennero girate. Qui tutto sommato pare domenica.
È soltanto una illusione, sì, ma in questi giorni di clausura, così tristi e sconcertanti, questa illusione di normalità è come un balsamo. È un regalo che si ripete quasi ovunque, attraversando la sterminata periferia romana, e poi però svanisce non appena si varca il confine segnato dalle mura Aureliane. Di là c’è il centro dove ogni cosa adesso assume invece un aspetto desolato e livido, nonostante la bellezza della città che si percepisce comunque intatta. Tuttavia, quella bellezza da sola non basta.
Non può bastare, malgrado una certa retorica consolatrice che vorrebbe Roma bellissima in questi giorni poiché deserta, come se davvero il deserto di umanità potesse esaltare le sue pietre che sono il relitto di un passato il quale, però, senza presente diventa nulla poiché nessuno può vederlo, nessuno lo ricorda e così sparisce anch’esso, insieme alle persone. E quelle pietre, adesso così sole, paiono morte e Roma nuda, spogliata a forza, quasi incattivita dalla solitudine ch’è dappertutto. Eppure, non è dappertutto assoluta e padrona allo stesso modo.
Non a Val Melaina, appunto, vuota ma non sola, come vuoto ma non solo è il Tufello lì accanto, e Vigne Nuove poco più avanti, verso la campagna. In via Conti, il vuoto è una presenza storica, per così dire, e quasi inevitabile, sebbene oggi la città abbia ampiamente raggiunto e superato il palo della morte dove, in Un sacco bello, Carlo Verdone immaginava che Enzo riuscisse a convincere Sergio a partire per Cracovia. Certo, in primavera manca il sole che a Ferragosto furiosamente morde l’asfalto e incide la facciata dei palazzi, ma le strade son rimaste larghe come allora e l’orizzonte non è ancora del tutto soffocato da guardrail arrugginiti e nuove costruzioni. Eppure, qui, adesso, ci si può sentire meno soli che andando per i vicoli del centro. E rimontando la periferia appena verso occidente, lo stesso accade alla Serpentara, quando ci si trova di fronte a quella sua specie di Himalaya di cemento e finestre, piegata in forma di mezzaluna come a fare spazio al lungo viadotto dei presidenti.
Nessuno o quasi, però, è venuto a raccontare queste strade. Fontana di Trevi, Pantheon, Colosseo in questi giorni hanno riempito l’intero racconto romano, e non poteva essere altrimenti. Ma Corviale? Sarà ancora lì Corviale, ora che siamo tutti costretti in casa e nessuno, tranne chi ci abita, può controllare? E Spinaceto? E cosa accade in questi giorni ai ponti del Laurentino? E in via Lampridio Cerva? E a Tor Bella Monaca? Cosa sappiamo di Tor Bella Monaca? Poco o nulla, neppure una riga, non una foto. Eppure, Roma è qui che vive davvero, non a piazza Navona né a Campo de’ Fiori. Non più, almeno. E la Fontana di Trevi per lo più anche i romani la vedono soltanto in tv.
Corviale, comunque, è ancora lì. E tutto scorre come sempre in questo palazzone tirato su negli anni Settanta: un chilometro di lunghezza per nove piani in altezza, moderne mura ciclopiche che chiudono Roma a sudovest e la separano dal mare. E le caprette che brucano l’erba che si fa largo tra le auto parcheggiate non devono stupire, né sono il segno – come altrove – della natura che si riprende il suo spazio. Banalmente, è qui accanto che abitano, e adesso paiono soltanto felicemente più intraprendenti, mentre un cavallo scalpita sull’altro lato della collina, in disparte.
Come a Corviale, anche altrove è lo stesso di sempre, o giù di lì. Tor Bella Monaca, sull’altro lato di Roma, appena fuori dal Raccordo anulare uscendo verso est, pare galleggiare in cielo, rizzata come al solito sulle sue altissime torri dalle mille finestre. E il silenzio inusuale che adesso l’accompagna non ha quel fondo livido come invece a corso Vittorio.
Attraversata la via Casilina, a Villaggio Breda, la normalità sta nel banchetto che in piazza, accanto alla chiesa, vende le fave fresche. A Roma è l’annuncio della festa. Si mangiano col pecorino il primo maggio. E qui, tra le vecchie casette del quartiere operaio e le strade che nei nomi sono un omaggio all’industria metalmeccanica novecentesca – Breda, appunto, e Piaggio, Necchi, Marelli, Riva – c’è davvero più gusto.
Spostandosi nella periferia orientale, a Cinecittà, al Quadraro, al Quarticciolo, alla Marranella, all’Acqua Bullicante, a largo Preneste, al Collatino, a Centocelle, si osserva che ovunque è lo stesso. Pare dappertutto una indistinta domenica senza fine. A Tor Pignattara pare persino lunedì, forse per qualche negozio aperto in più che altrove.
Non può esserci racconto di Roma senza andare per queste strade. Adesso son larghe che a Roma non si è quasi abituati. Larghe ma lente. Nessuno o quasi corre in questi giorni, eppure si potrebbe poiché si è sempre soli. Ma si va circospetti, o forse è soltanto lo sconcerto di dover misurare da capo i tempi di una città che si credeva di conoscere: dalla Serpentara a Casal de’ Pazzi in tempi di clausura non c’è che una manciata di minuti!
Ecco, allora, le finestre chiuse della casa dove abitò Pasolini, mentre Rebibbia irrompe d’improvviso, quasi inaspettata col suo lungo muro grigio che la racchiude, e le garitte azzurre. «Liberate i carcerati» sta scritto sui muri del quartiere. E i cantieri stradali oramai eterni a Ponte Mammolo adesso li si oltrepassa con discreta disinvoltura. Nessuno in giro, anche qui. Eppure, da nessuna parte c’è quel clima da day after che aleggia persino sopra piazza Navona. E, anzi, le architetture bianche ed esatte dell’Eur pare che si esaltino in questa solitudine e adesso più che mai sfidano la monumentalità del centro e ci dicono che lo stesso vuoto può avere conseguenze diverse.
Ma questa parte del racconto è rimasta del tutto inevasa in queste settimane: più che il racconto delle persone nella loro città, si è costruita un’epica della monumentalità assoluta di una parte della città, sciolta dall’umano. Ed è un genere di racconto che – come proprio l’Eur in questi giorni dimostra – forse non sarebbe dispiaciuto a Mussolini, a causa di quella sua idea balorda di isolare i grandi segni del passato raschiando via per mezzo di sventramenti interi quartieri popolari, ossia demolendoli e costringendo altrove i romani, di norma in borgate che venivano tirate su per l’occasione, nelle campagne.
Certo, è del tutto evidente che la periferia quotidianamente sconti una condizione di grande disagio rispetto al centro. Questa condizione di sofferenza è nota. Ciò che qui si vuol dire è che nonostante quella condizione – nonostante tutto – in questo momento assurdo, e davvero ai limiti della realtà, molti dei quartieri della periferia sembrano resistere meglio dei rioni del centro dove la sensazione è davvero quella di una città sbaraccata di corsa e poi abbandonata.
Non che l’assenza delle persone non sia evidente in tutta la città nello stesso modo e, infatti, nello stesso modo confonde i pensieri la presenza di auto parcheggiate ovunque in costanza dell’assenza umana, e l’erbetta che sotto di esse già cresce a causa del fermo prolungato. Se fosse estate, se fosse domenica, quelle auto non sarebbero lì ma altrove insieme alle persone. La presenza di quelle auto e l’assenza delle persone sono due circostanze incoerenti. Pare la messa in scena di un’aporia, e questo disturba o spiazza, e comunque ci fa sentire estranei ad ogni cosa.
Ma il vuoto, che si vede ovunque e che ovunque è lo stesso, nella città fuori dalle mura non pare annichilire le strade larghe. E le finestre dei palazzi non paiono occhi ciechi come quelle che si affacciano sui vicoli dei rioni. Lì s’indovina la vita dietro i vetri. In centro invece no. In centro in questi giorni non c’è fila neppure in farmacia.
Per quanto anch’essi abbrutiti dal vuoto e offesi, per quanto oppressi da una condizione di sofferenza che già nella normalità rende ogni cosa più difficile, i quartieri che danno le spalle al centro paiono insomma formare una città coerente e vera. Restano se stessi, e mostrano la faccia di sempre, che piaccia o meno. L’immenso corpo della periferia romana non ha mai avuto bisogno di maschere e così non viene smascherato da questa condizione innaturale che non modifica in nulla la sua anima mentre, in centro, la scomparsa dei turisti, l’assenza dei pendolari che popolano le sue strade, ha fatto evaporare del tutto la finzione sulla quale il centro da qualche decennio vive: questa parte della città non è più una città, e adesso non sa più neppure fingere di esserlo, e non può fare altro che mostrarsi per quel ch’è diventato: un grande centro direzionale innestato sul corpo morto eppure ancora bellissimo di ciò che questa città fu.
Così, non può che restar muto l’intrico di vicoli e mute e le piazze, i monumenti e ogni cosa minuta e grandiosa che dentro le mura da secoli ha accolto e accompagnato la vita delle persone. Adesso, lasciati soli e senza presenza umana, i rioni paiono sconfitti, non tanto dalla malattia, quanto dall’uomo stesso e da processi che di volta in volta, intrecciandosi, prendono nomi diversi – gentrificazione, urbanicidio, airificazione, da Airbnb – ma poi l’esito è lo stesso. Roma non sta più qui dove tutti la cercano e poi s’accontentano d’un simulacro nel quale oramai ogni cosa assume la consistenza di un ricordo, quindi l’aspetto desolato di un amore tradito. E la monumentalità dei suoi paesaggi, una volta che persino turisti e pendolari d’improvviso vengono a mancare, galleggia infine in un deserto innaturale, e non può fare altro che esaltare quel dissennato tradimento.
Qui la prima parte del reportage. Qui, qui e qui le foto della città deserta
Devi fare login per commentare
Accedi