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Ridiamo valore all’ottimismo, purché costruttivo
Questa è un’epoca storica faticosa. Almeno così sembra dalle notizie che leggiamo ogni giorno sui media. Eppure se mettessimo tutto in proporzione potremmo accorgerci, come afferma il sociologo Steven Pinker dati alla mano, che ci troviamo «nell’era più pacifica della storia dell’umanità». Non riusciamo a farne tesoro perché abbiamo perso il legame con l’ottimismo.
Non quello che ci mette in una bolla e ci fa indossare i famosi occhiali rosa. Questo è l’ottimismo come ci è stato presentato fino a ora e che rappresenta una cattiva compagnia per molte ragioni. Ci impedisce di guardare la realtà, di crescere e di trovare stimoli creativi che conducano a risposte concrete rispetto ai problemi personali e sociali.
Se non vogliamo stare in questo ottimismo, finiamo per cadere nella trappola del pessimismo che si rivela altrettanto pericolosa: si rischia la perdita della speranza, la mancata visione a lungo termine e anche un deficit importante rispetto al desiderio di entrare in azione.
Tra ottimismo e pessimismo, i due estremi, ci sono delle sfumature interessanti che varrebbe la pena prendere in considerazione e che vanno a definire l’ottimismo costruttivo. Quello che parla di possibilità, risposte e soluzioni.
L’economista Paul Romer lo ha definito ottimismo condizionato, in netta contrapposizione rispetto all’ottimismo compiaciuto. Quest’ultimo, per capire, è quello che prova un bambino che aspetta i doni di Natale. Il primo, invece, è dato da ciò che prova lo stesso bambino quando desidera una casa sull’albero e realizza che se recupera del legno e delle corde può convincere i suoi amici ad aiutarlo nella costruzione.
Illuminante questa definizione: rivaluta e offre nuovi punti di vista in merito al concetto di ottimismo. Troppo spesso accusato di offrire una visione distorta della realtà. Non è ciò di cui abbiamo bisogno oggi. Quel che ci occorre è l’ottimismo condizionato a qualcosa che assomigli all’approfondimento, all’azione, all’intraprendenza, alla condivisione e allo sguardo rivolto alle soluzioni.
Dicono gli studiosi che abbiamo naturalmente bisogno di mantenere vivo l’istinto drammatico per poterci salvare dai pericoli. Ma, essi affermano anche che è diventato necessario imparare a tenerlo a bada. Se lo lasciamo a briglia sciolta passa il limite e ci impedisce di vedere il mondo per quello che è davvero. Soprattutto ci conduce alla sensazione di essere impotenti di fronte ai problemi del mondo e, quindi, inattivi.
Se ci fermassimo a pensare alle parole che abbiamo letto negli ultimi giorni sui media, e confrontassimo le immagini che hanno evocato con quelle che abbiamo vissuto nella nostra quotidianità nello stesso periodo di tempo, probabilmente ci accorgeremmo che sono distanti anni luce. Quello che leggiamo non rappresenta la nostra quotidianità. È una parte di ciò che accade nel mondo ma ne esiste un’altra e, con ogni probabilità, è più simile a quella che viviamo ogni giorno e che osserviamo nelle persone che incontriamo.
Resta una questione di proporzioni e prospettiva: riflessioni non trascurabili quando ci si avvicina all’informazione. L’allontanamento dall’ottimismo – costruttivo sia chiaro – ci fa correre il rischio di generare un profondo calo della fiducia tra le persone e nelle istituzioni. Ma la fiducia è un valore fondamentale per la salute di un Paese e per il benessere degli individui. È, anche, una virtù necessaria per costruire relazioni solide e per sentirsi parte della grande comunità degli esseri umani.
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