Letteratura

Il passato immaginario che fa vincere le destre (in Svezia, e non solo)

3 Ottobre 2022

In Svezia si è recentemente votato per il Riksdag, il parlamento monocamerale. Com’è noto (io ho cercato di scriverne su questo giornale) i Democratici svedesi, forza di estrema destra guidata dal giovanile Jimmie Åkesson, hanno ricevuto oltre il 20% dei voti, diventando il secondo partito del regno dopo i Socialdemocratici. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno: già quattro anni fa l’estrema destra svedese aveva ottenuto il 12,9% dei voti.

Sull’ascesa dell’estrema destra svedese – e mi si perdoni se mi cito due volte in così poche righe – ho scritto di recente un’analisi per il sito di approfondimento Valigia Blu. Varie sono le ragioni del successo dei Democratici svedesi. Una, fondamentale, è la loro aspra, anzi apocalittica retorica contro la criminalità e le gang. Sia chiaro: città come Stoccolma o Malmö hanno dei problemi di delinquenza (al pari di ogni altra metropoli europea), ma a dar retta a Åkesson e ai suoi accoliti si potrebbe pensare che Malmö sia una specie di Gomorra sul Baltico, e Stoccolma una Babilonia nordica. Non è così, ovviamente.

Un’altra ragione dell’eccellente risultato dei Democratici svedesi è l’ormai più che decennale  demonizzazione dell’immigrazione (i veementissimi argomenti contro gli stranieri e le gang, come si può intuire, si intrecciano). C’è però un altro elemento degno di nota: i Democratici svedesi sono dei veri e propri laudatores temporis acti, e invocano il ritorno alla Svezia tra gli anni ’30 e ’50, quando il paese era sicuro, omogeneo a livello sociale, culturale e religioso, si poteva lasciare la porta di casa aperta e tutto andava a gonfie vele…

Ovviamente quella tratteggiata dall’estrema destra è una Svezia immaginaria. Anche se risale al 1933 l’accordo tra i Socialdemocratici e il Partito dei contadini, e al 1938 il celebre Accordo di Saltsjöbaden, la Svezia degli anni ’30 o ’40 era ben lungi dall’essere un regno incantato. E tuttavia questa retropia intrisa di nostalgia e accenti rurali funziona, specie nelle campagna e nei piccoli centri (che sono le aree più sicure, e con la più bassa percentuale di popolazione immigrata, e al contempo quelle dove i Democratici svedesi prendono più voti).

Niente di nuovo sotto il sole, sia chiaro: l’estrema destra, con la sua vena patriarcale e passatista, ha sempre avuto un debole per gli idilli campagnoli. Questo vale sia per l’estrema destra reazionaria (come nel caso dei Democratici svedesi, che a oggi non si sono mai posti al di fuori dall’alveo costituzionale, e che all’Europarlamento fanno parte del Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti) sia per quella totalitaria o aspirante tale: si pensi al ruralismo del fascismo italiano, o al Blut und Boden nazista, o a un certe comunità di suprematisti bianchi nelle campagne degli Stati Uniti. Da secoli il mondo rurale viene visto da estremisti di destra di ogni risma come un antidoto alla corruzione morale delle città, luoghi di sedizione e ribellione (e del resto già nel Medio Evo un adagio recitava: Stadtluft macht frei, l’aria della città rende liberi).

Tornando ai Democratici svedesi, oltre a essere ruralista la loro retropia reazionaria contiene altri elementi. Idealizza per esempio lo statsminister (primo ministro) socialdemocratico Per Albin Hansson, e la socialdemocrazia pre-Palme; si appropria di concetti tipici del discorso politico svedese, come il Folkhemmet; addirittura rivendica di essere il baluardo dei lavoratori e dell’egualitarismo nazionale, al posto dei cattivi socialdemocratici servi.

Del resto il sincretismo è sempre stata una caratteristica dell’estrema destra, e non solo di quella reazionaria. Anche l’estrema destra totalitaria, o aspirante tale (è il caso del fascismo italiano o del cosiddetto rashismo russo), è incline a elaborare costruzioni ideologiche poco sofisticate e molto sincretiche. I due libri di Hitler sono guazzabugli di scarsissimo spessore intellettuale. Nulla di paragonabile agli sforzi teoretici di un dittatore totalitario di sinistra come Stalin, che leggeva tantissimo (si veda, a tale proposito, il recente Stalin’s Library di Geoffrey Roberts) e che cercava di elaborare opere all’altezza del suo predecessore Lenin, e nel solco della complessa ortodossia marxista.

Nel “pensiero” nazista, invece, confluivano ideologie, tradizioni e linguaggi diversi, talvolta affini, altre volte assai distanti tra loro: dall’antisemitismo al nazionalismo, dal razzismo e dal darwinismo sociale all’occultismo, dalle concezioni völkisch e messianiche all’anticapitalismo, dal determinismo geopolitico alle visioni terrificanti delle orde asiatico-bolsceviche invadere da est la Germania.

Le radici di questo sincretismo (che si ritrova anche in ideologie estremistiche di altro tipo, ad esempio nel pensiero del regime nordcoreano, che mischia la Juche e un etnonazionalismo con forti connotazioni razziste) credo affondino nel Principio del capo, cifra fondamentale dell’estrema destra: è l’ideologia che si adatta alle necessità, alle urgenze e ai desiderata del capo, fonte ultima dell’ortodossia ideologica, e non viceversa; e pazienza per le incoerenze, l’importante è andare al potere (e poi accrescere tale potere).

Più un partito di estrema destra cerca di essere totalitario, più è centrale il capo. Possiamo pensare a un franchismo senza Franco? A un fascismo senza Mussolini? A un nazismo senza Hitler? A un salazarismo senza Salazar?

Forse è anche per questo che il pensiero dell’estrema destra (reazionaria o totalitaria) è sempre intrinsecamente un pensiero apocalittico. I capi dell’estrema destra totalitaria, in particolare, fanno proprio il motto apres moi le deluge! Tutto inizia e finisce con la loro esistenza. Ecco perché Hitler, per esempio, intendeva realizzare dopo la guerra gigantesche opere pubbliche, destinate a durare quattro millenni; come ci ha insegnato Elias Canetti, dopo la sua morte (e Hitler era ossessionato dal morire) avrebbero conservato un po’ della sua aura, e sarebbero stati d’aiuto “ai suoi più deboli successori”. Hitler, in altre parole, avrebbe continuato a esistere attraverso titanici monumenti.

La morte dominava sempre i pensieri di Hitler: acconsentì infatti che il suo architetto (e futuro ministro), Albert Speer, progettasse e costruisse in modo tale che nel lontanissimo futuro le rovine delle colossali costruzioni naziste sarebbero state belle e romantiche, come il Partenone di Atene o il Colosseo di Roma. Più che al domani, Hitler dunque pensava al dopodomani, e soprattutto all’oggi e allo ieri.

Naturalmente se il mondo finisce (nella testa del capo) con la sua morte, non deve stupire che egli collochi nel passato i sogni di grandezza che offre alle masse. Il passato è stato, e tornerà; il futuro è qualcosa di nebuloso, vacuo, buono solo se riporterà in vita le comunità rurali degli antichi germani, o le glorie di Roma, o la potenza dell’impero transoceanico (ed ecco il piccolo Portogallo svenarsi nel tentativo di tenere il Mozambico e l’Angola).

Retropie, retoriche apocalittiche e distopie vanno a braccetto. Non è una coincidenza. È quasi logica: se il futuro ci riserva solo orrori (l’Eurabia, le metropoli in balia di gang straniere, gli uomini che partoriscono, la “grande sostituzione”, le orde asiatiche ecc.), allora le uniche utopie possibili sono quelle costruite nel passato. Quanto scrive Michael Bentley sui reazionari tory del XIX secolo (lo cita Donald Sassoon nella sua ultima fatica, “Il trionfo ansioso”) è secondo me illuminante: “Il conservatorismo ha un rapporto stretto e necessario con la fine del mondo. Dopo tutto, che ogni cosa passi da una condizione migliore a una peggiore non è soltanto un’asserzione dei tory; è una delle sue principali raisons d’être”.

Viviamo in un mondo distopico, leggo sempre più spesso. La frase è banale. Non era forse molto distopica l’Europa del 1941? E l’URSS del 1932? La Cina della Rivoluzione culturale? E il Perù subito dopo la conquista spagnola, come ci ha raccontato Nathan Wachtel in “La visione dei vinti”, non era forse terrificante e allucinante (distopico) per gli indios? E non era forse una distopia il Sud schiavista? E la Germania della Guerra dei trent’anni? (basta leggere Grimmelshausen, e scoprire così l’esistenza della “bevanda svedese”, per rendersene conto). La storia umana è costellata di distopie, incubi che ci sembrano irreali e assurdi da quanto sono spaventosi. La prima volta che lessi “Se questo è un uomo” (ero sì e no tredicenne) restai senza parole; mi sembrava impossibile che al mondo potessero esistere persone tanto crudeli.

E tuttavia ci imbattiamo spesso nelle distopie. È sufficiente accendere la TV. Di recente ho visto alcuni episodi della serie TV “Resident Evil”. A mio parere è un prodotto ben fatto, da un punto di vista narrativo. E tuttavia quella serie TV, così come le altre serie e le centinaia di film apocalittici, veicola messaggi inquietanti: ad esempio quello che la società non esiste, e che siamo solo noi stessi, e al massimo i nostri familiari (ma se si ammalano di Virus T e rischiano di diventare zombie, bisogna abbattere pure loro; una condotta che molti persecutori di eresie del passato non avrebbero esitato ad approvare). Una celebrazione dell’individuo duro e spietato.

Le distopie cinematografiche, TV e videoludiche stanno prospettando futuri angosciosi a centinaia di milioni di persone, specie ai più giovani. Ma del resto come biasimare le nuove generazioni se sono attratte dal fascino sinistro di apocalissi nucleari, climatiche, virali, teratologiche? Molti giovani con alle spalle famiglie prive di capitale economico e relazionale vivono già oggi esistenze distopiche, tra lavori precari e sottopagati (magari sotto la sferza dell’algoritmo, se fanno i rider), volatilità sentimentale, ansie, genitori che non sempre sanno comprendere e aiutare, enormi difficoltà a costruirsi una famiglia.

Il boom delle distopie nella cultura pop del XXI secolo è un enorme regalo ai conservatori, ai reazionari, ai neofascisti. Le distopie di Hollywood e delle piattaforme di streaming ci abbattono, ci scoraggiano, ci spingono a pensare solo a noi stessi. Il mondo, si dice allo spettatore o al videogiocatore, andrà sempre peggio, quindi pensa a te stesso, gli altri domani potrebbero essere lo zombie che ti aggredisce, il vicino impazzito che ti brucia la casa, il conoscente che ti può sgozzare impunemente la notte del 21 marzo, il sadico miliardario che ti schiavizza. Le distopie sono utili: dato che nel 2050 il mondo farà schifo, fai i soldi in modo da poterti comprare una villa in Nuova Zelanda; oppure no, goditi la vita, indebitati, tanto non pagherai che poche rate del mutuo… Lavora e/o consuma, se non vuoi crepare/tanto creperai comunque.

Nella storia però sono esistite anche le utopie. Ed esse hanno plasmato le vicende umane. La parola stessa fu coniata da una grande mente del Rinascimento europeo, Tommaso Moro. Il sogno di costruire una città, una società perfetta esiste dagli albori dell’età moderna (e anche prima: pensiamo solo a Platone). Il primo socialismo, lo sappiamo, fu soprannominato “utopico” da Karl Marx; ma intanto furono visionari come Charles Fourier e Robert Owen a indicare la strada di qualcosa di completamente nuovo, nella storia del pensiero e della pratica politica dell’umanità.

Se la retropia ha le sue radici nel passato, l’utopia si rivolge al futuro. Ogni tipo di socialismo ha sempre guardato al domani. “Al sol dell’avvenire”. Avanti. Fiduciosi nell’umanità e nel progresso culturale e tecnologico, i socialisti hanno cercato di cambiare il mondo per quasi due secoli, nel bene e nel male. In Europa centrale e orientale, in Russia, in Asia orientale e in altri mondi post-feudali e post-coloniali il socialismo cosiddetto reale è stato caratterizzato da immani orrori e innumerevoli errori; in Occidente però il socialismo democratico e riformista, nelle sue tante varianti, ha contribuito a generare un benessere mai visto dai tempi della Rivoluzione agricola, liberando dalla fame, dalla miseria e dall’ignoranza decine di milioni di persone.

Ciò che a noi sembra la norma, come il figlio dell’immigrato a basso reddito che si laurea, o il fatto di poter essere visitati da un medico gratuitamente, o la possibilità per un’operaia di andare in gita a Venezia con un biglietto ferroviario regionale di pochi euro, ecco tutto questo sarebbe apparso utopico nel 1870; nel 2022 è la banalissima, ancorché fragile realtà. 8 hours for work, 8 hours for rest, 8 hours for what we will chiedevano gli operai nella seconda metà del XIX secolo; cento anni dopo la giornata lavorativa di otto ore più fine-settimana di riposo era la realtà per gli operai della Volvo e per quelli della Ford, per i tessitori di Prato e per i minatori del Galles. Le “normopie” di oggi sono le utopie di ieri.

Mi pare sia stato Paco Ignacio Taibo II ad aver scritto che Robin Hood ha fatto, per la causa della sinistra molto più di tante opere di studiosi marxisti. Condivido. La cultura popolare può essere un potente acceleratore di consapevolezza. Ma oggi le utopie sono tabù. Sceneggiatori, registi, fumettisti e scrittori ci offrono solo distopie. Sui media le uniche utopie concesse sono quelle dei miliardari e degli autocrati, che grazie ai loro denari (più o meno disonestamente guadagnati) possono progettare città sull’oceano, fresche metropoli in mezzo al deserto, idilli in orbita stazionaria o su Marte, gated communities come quelle che forse hanno ispirato la New Raccoon City del già citato telefilm “Resident Evil”, dove il nitore delle monofamiliari e il verde dei parchi curatissimi celano la mostruosità di una multinazionale spietata.

O in alternativa alla gente comune sono permesse le pseudo-micro-utopie della vita forastica, alpestre od oceaniche. La famiglia che vende tutto e gira il mondo in barca a energia solare; la coppietta che compra il vecchio rifugio in Val d’Aosta e lo rimette a nuovo; il gruppetto di amici che lascia la città per rifugiarsi in campagna, a coltivare pomodori bio. Nulla di male, sia chiaro. Però le utopie sono vere solo se vogliono salvare tutti. Soltanto se sono universali. Invertendo la massima dei manager contemporanei “in questa azienda siamo tutti importanti, nessuno è indispensabile”, nelle vere utopie sono tutti indispensabili, perché ogni vita è unica e preziosa.

Scriveva Oscar Wilde in “L’anima dell’uomo sotto il socialismo”: “Una cartina del mondo che non contenga Utopia non è degna neppure di uno sguardo, perché tralascia il paese nel quale l’umanità continua ad approdare. E, quando vi approda, l’umanità si guarda intorno, vede un paese migliore e issa nuovamente le vele. Il progresso è la realizzazione di Utopia”. In un mondo dove l’estrema destra vince le elezioni, e trionfano retropie e distopie, il primo compito dei socialisti democratici è sognare e immaginare. Il resto verrà da sé.

 

 

 

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