Religione

Vatileaks: tutto quel che Papa Francesco sa, e che dovete sapere anche voi

20 Novembre 2015

Immobili, conti allo Ior, fondo pensioni, procedure negli appalti. I libri Via Crucis di Gianluigi Nuzzi (Chiarelettere) e Avarizia di Emiliano Fittipaldi (Feltrinelli) sulle finanze vaticane, scritti in base a una documentazione quasi coincidente e usciti quasi in contemporanea a fine ottobre, hanno indotto la magistratura vaticana a rinviare a giudizio tre funzionari vaticani, mons. Lucio Angel Vallejo Balda, il suo collaboratore Nicola Maio e Francesca Chaouqui, con l’accusa di aver «rivelato notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato» pontificio, e gli stessi giornalisti italiani per «concorso in reato», in forza di un giro di vite normativo impresso da Papa Francesco nel 2013 dopo la prima fuga di documenti riservati vaticani («vatileaks») che aveva contraddistinto, nel 2012, l’ultimo scorcio del pontificato di Benedetto XVI. La prima udienza di un processo che prevedibilmente si concluderà celermente prima dell’inizio del Giubileo (8 dicembre) è fissata per domani. I documenti pubblicati, ad ogni modo, sono interessanti, ancorché in parte superati dagli eventi, e offrono l’occasione per fare il punto sul quadro economico del Vaticano, e sugli interventi messi in atto da Papa Francesco.

 

Il Papa deve sapere, il Papa sa

«Devi scrivere un libro. Devi scriverlo anche per Francesco. Che deve sapere»

Lo dice un anonimo monsignore a Fittipaldi, prima di lasciargli una gran quantità di documenti «dello Ior, dell’Apsa, dei dicasteri, dei revisori dei conti chiamati dalla commissione referente, la Cosea». È questo il punto debole della ricostruzione. Se questo argomento aveva un qualche fondamento nel 2012, quando Benedetto XVI, il Papa teologo, piuttosto isolato, aveva delegato la gestione degli affari correnti al suo Segretario di Stato, l’esuberante Tarcisio Bertone, e il suo maggiordomo, Paolo Gabriele, decise, in modo proditorio e probabilmente non solitario, di fare uscire i documenti perché, così disse, riteneva che fosse il modo di far sapere al Papa come stavano le cose, Jorge Mario Bergoglio, senza dubbio, sa. Lo ha puntualizzato Francesco in persona all’Angelus dello scorso otto novembre, in riferimento all’istruttoria che ha promosso a inizio pontificato al fine di riformare, con l’aiuto di nove cardinali di tutto il mondo (C9), la Curia romana, e arrivare, nel giro di qualche anno, ad una costituzione sostitutiva della vigente Pastor bonus: «Io stesso avevo chiesto di fare quello studio, e quei documenti io e i miei collaboratori già li conoscevamo bene, e sono state prese delle misure che hanno incominciato a dare dei frutti, anche alcuni visibili». I documenti pubblicati da Nuzzi e Fittipaldi, in effetti, vengono dalla Commissione Referente di Studio e Indirizzo sull’Organizzazione delle Strutture Economico-Amministrative della Santa Sede (Cosea) istituita, assieme ad una seconda commissione referente sullo Ior (Istituto per le Opere di Religione) dal Papa il 18 luglio 2013, nel frangente in cui mette mano alla riforma delle strutture economiche e amministrative dello Stato pontificio, e disciolte, per esaurimento della missione, il 22 maggio 2014, dopo che, il 24 febbraio precedente, lo stesso Papa aveva creato ex novo un super-dicastero economico, la Segreteria per l’Economia, affidandolo al cardinale australiano George Pell. Le due persone sotto inchiesta in Vaticano, mons. Balda e Francesca Chaouqui, erano, rispettivamente, segretario e membro della Cosea. E il cardinale Pell è dipinto dai due libri di Nuzzi e Fittipaldi con toni negativi. I documenti, premette Nuzzi, fotografano una situazione «aggiornata fino all’inverno del 2013-14», non dunque aggiornata.

 

Chi ha pagato i lavori della casa del card. Bertone

Il Papa «deve sapere che la Fondazione del Bambin Gesù, nata per raccogliere le offerte per i piccoli malati, ha pagato parte dei lavori fatti nella nuova casa del cardinale Tarcisio Bertone»

Lo scorso quattro novembre, un paio di giorni dopo l’uscita dei libri di Nuzzi e Fittipaldi, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin ha nominato i nuovi consiglieri dell’ospedale di proprietà della Santa Sede. I nuovi consiglieri sono sette, compresa la presidente Mariella Enoc, Pietro Brunetti, Ferruccio De Bortoli, Maria Bianca Farina, Caterina Sansone, Anna Maria Tarantola e Antonio Zanardi Landi. Nuovi consiglieri, nuovo statuto e nuova mission: «Un obiettivo – ha dichiarato la presidente Enoc – cui ho lavorato fin dal primo giorno del mio insediamento per garantire trasparenza, solidarietà e innovazione». Enoc era stata nominata da Parolin il 13 febbraio scorso, in sostituzione di Giuseppe Profiti, che, nominato nel 2008 dal cardinale Bertone a capo del nosocoimio pediatrico vaticano, a gennaio di quest’anno aveva rassegnato le dimissioni. Un annetto prima, a dicembre del 2013, tutti ricordano il gelo con il quale Papa Francesco, in visita all’ospedale che sorge sul Gianicolo, aveva interrotto il discorso di Profiti, lasciando il palco per andare a salutare i bambini. Quanto a Bertone, al Corriere della Sera ha dichiarato di aver pagato con i propri risparmi 300 mila euro dei lavori di ristrutturazione. Quanto ad ulteriori 200 mila euro che sarebbero stati versati dal Bambino Gesù, «così dicono, ma io non ho autorizzato nulla». Bertone non è Segretario di Stato dal 31 agosto 2013, non è presidente della commissione di vigilanza dello Ior dal gennaio del 2014.

 

Come viene gestito il patrimonio immobiliare

Il Papa «deve sapere che il Vaticano possiede case, a Roma, che valgono quattro miliardi di euro. Dentro non ci sono rifugiati, come vorrebbe il papa, ma un sacco di raccomandati e vip che pagano affitti ridicoli»

È l’aspetto più interessante dei libri di Nuzzi e Fittipaldi. Difficile che il Papa non avesse in mente questi dati quando, a settembre scorso, intervistato dall’emittente portoghese Radio Renascenca, ha precisato che «un convento religioso è esentato dalle imposte, però se lavora come un albergo paghi le tasse, altrimenti l’impresa non è molto sana». Ma non era mai stato pubblicato il valore di mercato degli immobili di proprietà della Santa Sede. Negli anni scorsi, qua e là, non di rado in collegamento ad inchieste giudiziarie italiane come quella sulla cosiddetta «cricca», era emerso il tema degli immobili di proprietà della Santa Sede. Il britannico Guardian aveva raccontato, a inizio 2013, di un «impero immobiliare del Vaticano fuori Italia, dopo che, in realtà, proprio mons. Balda, allora segretario della Prefettura per gli Affari economici, a fine 2012, aveva confermato, in una conferenza stampa in Vaticano, l’esistenza di immobili, dati nel tempo in donazione al Vaticano, in Svizzera, Francia e Inghilterra. Sulle cifre, però, non c’era certezza. Il solo patrimonio dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Aspotolica), «tra unità commerciali, residenziali e istituzionali, risulta valere ben sette volte di più rispetto a quanto viene riportato nei documenti contabili», scrive Nuzziora . “E il valore di mercato riferibile sempre solo al patrimonio Apsa ammonta a ben 2,7 miliardi di euro, un dato che per la prima volta la commissione Cosea riesce a a documentare con precisione», e che i vatileaks fanno conoscere all’opinione pubblica. L’atro dicastero proprietario di molti immobili, fatti fruttare per finanziare le missioni, è la congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli (Propaganda fide), che, in una nota, ha voluto smentire alcune ricostruzioni dei due libri: «E’ stato scritto, ad esempio, che la Congregazione dia in affitto immobili di lusso a prezzi di favore e addirittura che si ospiti una sauna o che sia proprietaria dell’Hotel Priscilla. La totalità degli immobili di proprietà della Congregazione, donati per le Missioni, sono affittati a prezzo di mercato; non mancano eccezioni per motivi di situazioni di indigenza». Interessante – e in obiettiva contraddizione con lo stile abitativo del Papa – l’elenco pubblicato su Via Crucis degli appartamenti, con metratura, dei diversi cardinali della Curia romana.

 

Come viene speso l’Obolo di San Pietro

 Il Papa «deve sapere che le offerte che i suoi fedeli gli regalano ogni anno attraverso l’Obolo di San Pietro non vengono spese per i più poveri, ma ammucchiate su conti e investimenti che oggi valgono quasi 400 milioni di euro»

Anche per quanto riguarda l’Obolo, oggetto di decennali misteri, i libri di Nuzzi e Fittipaldi raccontano per la prima volta l’entità della raccolta: «La colletta – si legge in un documento della Cosea – viene utilizzata per le iniziative caritative e/o specifici progetti segnalati dal Santo Padre (14,1 milioni), per la trasmissione delle offerte con specifica finalità (6,9 milioni) e per il mantenimento della Curia romana (28,9 milioni)». Questo significa, chiosa Nuzzi, «che oltre metà delle offerte che arrivano dai fedeli di tutto il mondo e che dovrebbero andare ai bisognosi finiscono invece nelle casse della Curia». Osservazione non del tutto esatta poiché l’obolo – così recita il relativo sito internet – è «l’aiuto economico che i fedeli offrono al Santo Padre, come segno di adesione alla sollecitudine del Successore di Pietro per le molteplici necessità della Chiesa universale e per le opere di carità in favore dei più bisognosi». Chi versa l’obolo, insomma, dovrebbe sapere (analogamente, volendo fare un paragone, a chi tributa alla Chiesa cattolica l’otto per mille) che la somma non viene interamente utilizzata «in favore dei più bisognosi». Grazie ai vatileaks, i «contribuenti» dell’obolo conoscono con esattezza l’impiego del «gettito».

 

Lo Ior, i conti chiusi, i rapporti con l’Italia

Il Papa «deve sapere che lo Ior non è stato ancora ripulito e che dentro il torrione si nascondono ancora clienti abusivi, gentaglia indagata in Italia per reati gravi. Deve sapere che il Vaticano non ha mai dato ai vostri investigatori della Banca d’Italia la lista di chi è scappato con il bottino all’estero»

È vero, ed è noto, che il repulisti avviato all’Istituto per le Opere di Religione da Ernst von Freyberg, nominato da Benedetto XVI agli sgoccioli del suo pontificato e sostituito a luglio del 2014 da Jean-Baptiste de Franssu, fedelissimo del cardinale Pell, è stato radicale ma non è ancora concluso. Che lo Ior sia stato utilizzato in passato per riciclare denaro sporco è storia, raccontata in parte dallo stesso Gianluigi Nuzzi nel suo primo, bel bestseller Vaticano Spa. Da quando Papa Ratzinger ha siglato un accordo monetario con l’Unione europea, aprendo le porte dell’istituto che ha sede nel torrione Niccolo V all’organismo del consiglio d’Europa per il contrasto al riciclaggio, Moneyval, e da quando, poi, Papa Francesco ha rafforzato l’operazione trasparenza ingaggiando il Promontory financial group per fare uno screening dei conti correnti, molte cose sono però cambiate. Con il nuovo corso lo Ior ha inviato lettere di disdetta a raffica. Ha collaborato con la giustizia italiana quando è stato arrestato mons. Nunzio Scarano, funzionario dell’Apsa con conti presso lo Ior su cui movimentava milioni di euro di dubbia provenienza («Non è certo la beata Imelda», ha detto di lui Papa Francesco, facendo fare alla giustizia italiana il suo corso). «Da maggio 2013 a giugno 2014 – si legge nei documenti pubblici dell’istituto – lo Ior ha sistematicamente controllato con attenzione tutti i dati dei clienti esistenti. Questo compito è stato ora completato con successo». Come risultato di questo processo di analisi, lo Ior ha terminato, al 31 dicembre 2014, 4.614 rapporti con la clientela. Di questi, 2.600 erano conti «dormienti», 1460 sono stati chiusi per ragioni «fisiologiche», 554 rapporti sono stati chiusi in seguito alla decisione di restringere la clientela a istituzioni cattoliche, clero, dipendenti o pensionati del Vaticano con conti riservati a stipendi o pensioni, oltre ad ambasciate e diplomatici accreditati presso la Santa Sede. Rimangono 274 rapporti da chiudere, di cui 149 «in chiusura», al 31 dicembre scorso, e 126 «bloccati». A giugno del 2014, quando i rapporti chiusi erano non ancora 554 ma 396, lo Ior precisava che a giugno «nel 2013 e nella prima metà del 2014, la cessazione dei rapporti con questi 396 clienti ha determinato un deflusso di fondi per un totale di EUR 44mio circa, di cui EUR 37,1mio sono stati trasferiti a mezzo bonifico a istituzioni finanziarie con sede in giurisdizioni che garantiscono la tracciabilità dei fondi in forza di un quadro normativo equiparabile (l’88% è stato destinato a istituzioni italiane), Eur 5,7mio circa sono stati trasferiti a titolo di donazione attraverso circuiti interni all’Istituto. L’ammontare residuo, pari a Eur 1,2mio, è stato liquidato in contanti secondo le policy interne». È la zona grigia indicata da Fittipaldi. Il Vaticano ha deciso di chiudere con il passato, lasciando che i clienti divenuti indesiderati trasferissero i loro soldi altrove, senza comunicare i dettagli all’Italia. Decisione politicamente discutibile ma, in forza della sovranità statale vaticana, legittima. Al 31 dicembre 2014 gli utenti dello Ior sono 15,181. Tra di essi vi possono essere istituti religiosi (sono la metà della clientela rimasta, circa tre miliardi di asset) con casa generalizia in Italia e movimenti finanziari in altri paesi. Su questo si è incentrato il recente accordo fiscale tra Italia e Vaticano. Come disse Von Freyberg prima di lasciare l’incarico, «tutti i clienti in futuro dovranno pagare le tasse nei propri paesi d’origine: dovranno pagare le tasse in Italia, negli Stati Uniti, e così via. E dovranno dimostrarcelo». Va peraltro notato che Von Freyberg, sotto lo sguardo vigile del pontefice argentino, disinvestì da operazioni spericolate avviate all’epoca del cardinale Bertone (Lux vide, Optimum ad maiora). Il bilancio ne uscì dissanguato: nel 2013, a causa di «oneri di natura straordinaria» e «rilevanti rettifiche sul valore dei fondi di investimento», lo Ior – si leggeva nel budget pubblicato online nonostante non poche resistenze in Curia – conseguì un utile di 2,9 milioni di euro, 83 milioni in meno rispetto al 2012. L’Istituto, nel 2014, è tornato a crescere con un utile – lo ha reso noto il rapporto 2014 pubblicato a maggio scorso di 69,3 milioni di euro: «Il miglioramento del risultato è imputabile essenzialmente all’andamento del risultato da negoziazione titoli e alla diminuzione dei costi operativi di natura straordinaria».

 

La “Fabbrica dei Santi”

 Il Papa «deve sapere che per fare un santo, per diventare beati, bisogna pagare. Già, sborsare denaro. I cacciatori di miracoli sono costosi, sono avvocati, vogliono centinaia di migliaia di euro»

I dati raccolti dalla Cosea «sono allarmanti –scrive Nuzzi –. Negli uffici dei postulatori risultano arrivare consistenti somme di denaro in contanti e su di esse non viene predisposta un’adeguata contabilità. Da quanto emerge nei primi sei mesi di indagini, rimangono «insufficienti i controlli del denaro liquido per le canonizzazioni». Il racconto prosegue con una vicenda dai contorni poco chiari relativa alla decisione di bloccare i conti correnti allo Ior dei «postulatori» di alcune cause di canonizzazione, oltre che a big della Curia come mons. Vincenzo Paglia e mons. Georg Gaenswein. Il tema, ad ogni modo, esiste, ed è noto. Quella che nell’era di Giovanni Paolo II venne soprannominata «la fabbrica dei santi» ha al suo servizio moltissime persone integerrime e qualche furbo. Tanto che il cardinale Angelo Amato, prefetto della congregazione per le Cause dei santi, annunciò, a gennaio del 2014, l’entrata in vigore di un «tariffario di riferimento» a cui postulatori e attori delle cause di canonizzazione devono attenersi. L’obiettivo, spiegò, è eliminare «sperequazioni tra le varie cause». Provvedimento che faceva intuire speculazioni e opachi giri di denaro attorno alla memoria di santi e beati. Già all’epoca ci pensò il Catholic News Service (Cns), prestigiosa agenzia stampa della conferenza episcopale degli Stati Uniti, a fare un po’ di conti. Una causa di canonizzazione – dai primissimi indizi alla messa a San Pietro – può costare fino a 250mila dollari. Le spese possono includere il viaggio dei testimoni, l’esumazione del candidato, la pubblicazione della «positio», le spese per i consulti teologici, storici, medici, le cerimonie. Duecentocinquantamila dollari, mica bruscolini. Non tutti possono permetterseli. E – ironia della santità – non tutti vogliono. Raccontò al Cns mons. Greg Mustaciuolo, postulatore per la canonizzazione di Dorothy Day, fondatrice del movimento dei lavoratori cattolici, che c’è un problema. Chi vuole Dorothy Day santa, infatti, i soldi che ha preferisce darli ai poveri.

 

Quanto costano le pensioni

Un capitolo del libro di Nuzzi, intitolato «il buco nero delle pensioni», riporta che l’analisi della Cosea rivelò «un rilevante deficit dei finanziamenti di almeno 700-800 milioni» nel fondo pensioni. Il problema, legato all’invecchiamento della popolazione vaticana e alle ristrettezze di bilancio, è noto. Tanto che il 20 febbraio 2015, a Cosea ormai disciolta, il Consiglio di amministrazione e del collegio dei revisori dei conti del fondo pensioni vaticano pubblicò una nota per chiarire che il rapporto di copertura (funding ratio) è del 95%, rivelare il «progressivo incremento delle risorse finanziarie e immobiliari sia con i mezzi propri che, dal 1993 al 2013, sono mediamente aumentati di 22.256.196 l’anno, sia per l’andamento in crescita dell’utile d’esercizio, che, negli ultimi 6 anni è passato da 23.583.882 ad 26.866.657, importi sufficienti a coprire il costo attuale delle pensioni» e rendere noto che il patrimonio del Fondo, al 31 dicembre 2014, è di 477.668.000 e, al 31 dicembre 2015, sarà prevedibilmente di oltre 504 milioni di euro, «a conferma della reale solidità del Fondo, che è passato da uno stanziamento iniziale di 10 miliardi delle vecchie lire italiane nel 1993 ad oltre 500 milioni di euro in poco più di venti anni». Con lettera apostolica in forma di «motu proprio» del 29 maggio scorso, ad ogni modo, il Papa ha disposto la revisione dello statuto del fondo pensioni vaticano.

 

Appalti e assunzioni

Il libro di Nuzzi riporta un interessante intervento del Papa,  registrato a inizio dei lavori della Cosea, nel quale Francesco affronta il nodo degli appalti: «Ci sono spese che non provengono da una chiarezza delle procedure. Questo si vede nei bilanci. Collegato a questo, credo si debba andare più avanti nel lavoro di chiarire bene l’origine delle spese e le forme di pagamento». E «se una cosa è stata fatta senza un preventivo, senza autorizzazione, non si paga». Il problema è evidente, difficile da sradicare in un piccolo Stato pontificio, molto poroso con la realtà romana e italiana, dove vige spesso la logica di affidare lavori o fare assunzioni per mezzo di amici e amici degli amici. Non casualmente, lo scorso 28 ottobre Papa Francesco ha messo un freno al rischio delle assunzioni facili, precisando che «il presente periodo di transizione» dovuto alla riforma in corso della Curia romana non è affatto «tempo di vacatio legis» e, in particolare, «le assunzioni e i trasferimenti del personale dovranno essere effettuati nei limiti delle tabelle organiche, escluso ogni altro criterio, con il nulla osta della Segreteria di Stato e nell’osservanza delle prescritte procedure, compreso il riferimento ai parametri retributivi stabiliti». Attualmente, comunque, non è ancora vigente una procedura nuova e standardizzata sugli appalti, che sarà prevedibilmente adottata dagli organismi vaticani, a partire dal Governatorato, con il compimento della riforma della Curia.

 

Il vescovo spendaccione

Il Papa «deve sapere che un vescovo in Germania ha scialacquato 31 milioni per restaurare la sua residenza, e che una volta beccato è stato promosso con un incarico a Roma. Francesco deve sapere un sacco di cose. Cose che non sa, perché nessuno gliele dice»

Dopo mesi di polemiche, sui giornali tra i cattolici tedeschi, in merito al suo uso dei soldi (un viaggio in India in prima classe, una esosa ristrutturazione in Diocesi), e dopo un’inchiesta che la Conferenza episcopale tedesca consegnò alla congregazione vaticana dei vescovi, Papa Francesco ha «accettato le dimissioni» di monsignor Franz-Peter Tebartz-van Elst, il 26 marzo del 2014, e nominato un «amministratore apostolico» per la diocesi. Nonostante i buoni rapporti del monsignore con alcuni big tedeschi della Curia romana. «Atteso che nella diocesi di Limburg si è venuta a determinare una situazione che impedisce un esercizio fecondo del ministero da parte di S.E. mons. Franz-Peter Tebartz-van Elst, la Santa Sede ha accettato le dimissioni presentate dal presule in data 20 ottobre 2013 e ha nominato un amministratore apostolico sede vacante nella persona di S.E. monsignor Manfred Grothe. Il vescovo uscente, S.E. Mons. Tebartz-van Elst, riceverà in tempo opportuno un altro incarico». Il prelato è ora funzionario del Pontificio consiglio per la Nuova evangelizzazione. La Bild ha scritto che il monsignore vive adesso in un appartamento vicino a Piazza Navona, cosa sulla quale, evidentemente, Francesco non ha alcun potere di intervento. A inizio settembre la Congregazione per i vescovi, d’accordo con la Segreteria di Stato, ha respinto la richiesta della diocesi di Limburg di un processo in Vaticano per risarcimento danni a carico dell’ex vescovo.

La riforma della Curia Romana, il ruolo di Pell

Il Papa «deve sapere che l’uomo che lui stesso ha scelto per rimettere a posto le nostre finanze, il cardinale George Pell, in Australia è finito in un’inchiesta del governo sulla pedofilia, alcuni testimoni lo definiscono ‘sociopatico’, in Italia nessuno scrive niente. Deve sapere che Pell ha speso per lui e i suoi amici, tra stipendi e vestiti su misura, mezzo milione di euro in sei mesi»

Il cardinale Pell dovrebbe essere ascoltato prossimamente davanti alla Royal Commission into Child Sexual Abuse, in Australia, che indaga su alcune vicende di pedofilia e relativo insabbiamento delle accuse. Quanto alle critiche sulle spese del suo dicastero, il cardinale ha risposto con una nota dettagliata. L’arcivescovo emerito di Sidney – che non ha nascosto di avere opinioni diverse dal Papa sia in merito all’ecologia, quando è uscita l’enciclica di Francesco Laudato si’, sia sul metodo e sul merito del recente sinodo sulla famiglia – è stato scelto dallo stesso Pontefice argentino tra i nove cardinali di tutti i continenti che lo coadiuvano nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa cattolica (C9). Il Papa non si è circondato di «yes men». Bisogna inquadrare la riforma che Francesco sta portando avanti – riforma degli stili di vita, prima ancora che delle strutture, ri-forma che intende ridare la forma evangelica all’istituzione ecclesiale – nella cornice della storia vaticana di questi anni. Jorge Mario Bergoglio è stato eletto, a stragrande maggioranza, da un Conclave che voleva chiudere l’epoca degli scandali, incubata sotto Giovanni Paolo II, esplosa sotto Benedetto XVI, il quale, rinunciando al Pontificato, ha spianato la strada all’elezione del primo Papa latino-americano, del primo Papa gesuita, e del primo Papa che ha scelto il nome del poverello di Assisi, Francesco. «Voglio una Chiesa povera e per i poveri», ha detto appena eletto. Sfida immane, certo, ma non impossibile. I primi vatileaks, nel 2012, erano il sintomo di una crisi della Curia, quelli attuali sembrano la coda di quella crisi.

Francesco cambia le cose. La sua riforma non è fatta solo di parole, non è marketing, né maquillage. Non tutti sono contenti. A titolo di parziale riepilogo, va ricordato che, a partire dall’arresto di mons. Scarano, a giugno del 2013, un semestre dopo il Conclave, Papa Francesco dà uno scossone a tutte le finanze vaticane. Decapita i vertici dello Ior immediatamente inferiori al presidente tedesco (il direttore generale e il suo vice, Paolo Cipriani e Massimo Tulli, vengono indagati da lì a poco dalla procura di Roma); decapita i vertici dell’Apsa (via tanto il responsabile della sezione ordinaria per gli immobili, Massimo Boarotto, quanto quello della sezione straordinaria per gli investimenti finanziari, Paolo Mennini, figlio di quell’Antonio Mennini braccio destro di monsignor Marcinkus); dapprima commissaria, poi sostituisce la commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior guidata da Bertone; adotta un motu proprio e quattro nuove leggi che imprimono, tra l’altro, un giro di vite sulla «prevenzione e il contrasto delle attività in campo finanziario e monetario»; ridisegna – grazie al lavoro della commissione referente sullo Ior e a quello della Cosea – il Consiglio per l’economia, consesso di quindici cardinali creato da Giovanni Paolo II per coinvolgere presuli di tutto il mondo nell’approvazione dei bilanci della Santa Sede, e sostituisce i membri con otto cardinali e sette laici. Razionalizza gli uffici. Circoscrive il ruolo dello Ior. Lascia al Governatorato il ruolo di «municipio» dello Stato pontificio. Stabilisce che l’Apsa divenga, ufficialmente, la “banca centrale” del Vaticano. Avvia una riforma dei mass media vaticani (Osservatore romano, Radio vaticana, Centro televisivo vaticano, sala stampa). Infine crea un nuovo super-dicastero delle Finanze, la Segreteria per l’Economia, che centralizza il controllo su tutti i bilanci dei diversi uffici in base a standard contabili internazionali.

Lo spoils system è radicale. Escono di scena tutti i protagonisti, italiani, della passata gestione: il cardinale Tarcisio Bertone (l’ex segretario di Stato è sostituito dallo spagnolo Santos Abril y Castelló alla testa della commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior), il cardinale Attilio Nicora (alla testa dell’authority finanziaria, Aif, siede l’esperto di anti-riciclaggio del Liechtenstein René Bruelhart), nonché il cardinale Angelo Scola (l’arcivescovo di Milano era membro del Consiglio dell’Economia sino alla sua ristrutturazione), il cardinale bertoniano Giuseppe Versaldi, che lascia la Prefettura degli Affari economici, disciolta, per la più defilata congregazione dell’Educazione cattolica, mentre un altro cardinale bertoniano, Domenico Calcagno, spesso citato nei libri di Nuzzi e Fittipaldi, nel corso dei mesi diviene quasi invisibile in attesa di lasciare la presidenza dell’Apsa. I nuovi vertici sono tutti non italiani: oltre ai già citati Bruelhart (Aif ) e al cardinale Abril y Castelló (commissione di vigilanza Ior, ora allargata a sei membri anziché cinque), il francese Jean-Baptiste de Franssu ha sostituito Von Freyberg allo Ior, il cardinale tedesco Reinhard Marx guida il Consiglio dell’Economia e l’australiano George Pell è a capo della potente Segreteria per l’Economia. Mons. Vallejo Balda, Opus Dei, ora agli arresti in Vaticano per la fuga di documenti, sperava di diventare il suo numero due, ma il Papa gli preferisce il suo segretario maltese Alfred Xuereb.

Beninteso, tra i quadri dirigenziali vaticani ci sono ancora degli italiani. Il nuovo cardinale segretario di Stato, ad esempio, Pietro Parolin fa parte del Consiglio di sovrintendenza dello Ior, ancorché in qualità di semplice membro e non di presidente. Il direttore dell’authority finanziaria guidata da Bruelhart è Tommaso Di Ruzza; a ridisegnare il futuro dell’Apsa, ha contribuito l’economista Franco Dalla Sega. L’ex nunzio Battista Ricca rimane – nonostante una campagna stampa avversa – «prelato» dello Ior, ossia ufficiale di collegamento tra l’istituto e il pontefice. Il nuovo corso, inoltre, nel corso dei mesi ha suscitato qualche perplessità ben oltre il circuito degli italiani. Ha lasciato perplesso più d’uno la lunga serie di società internazionali di consulenza ingaggiate dal Vaticano nei primi mesi di pontificato (Ernst & Young, Promontory financial Group, McKinsey & Company, Kpmg, PricewaterhouseCoopers, Deloitte). Agli occhi di molti il cardinale Pell ha accumulato troppo potere. Ancora a luglio scorso, in un’intervista al Financial Times, rilanciava l’idea, guardata con sospetto da diversi ambienti curiali, di creare un Vatican Asset Management (Vam), una sorta di centrale per gli investimenti.

In applicazione del più classico principio del check and balance, di conseguenza, il Papa ha non casualmente nominato, negli ultimi mesi, tre italiani in ruoli-chiave del nuovo organigramma vaticano, il discreto e competente monsignor Mauro Rivella alla segreteria dell’Apsa, monsignor Luigi Mistò alla segreteria della sezione amministrativa della Segreteria per l’Economia e alla vicedirezione dello Ior Gianfranco Mammì. Ha lasciato che “Propaganda Fide”, guidata dal cardinale italiano Fernando Filoni, conservasse una certa autonomia gestionale. Ha affidato la neonata segreteria per i mass media ad un competente monsignore italiano, di origini brasiliane, Dario Edoardo Viganò.

Il quadro complessivo, a ogni modo, è chiaro. Non ci sono cifre ufficiali, ma da anni è noto che a finanziare le casse del Vaticano, principalmente, sono i cattolici statunitensi e quelli tedeschi. E i cardinali espressione di quei paesi vogliono contare di più nella gestione della «loro» burocrazia. Non tutti gli italiani erano coinvolti negli scandali, ma non c’era scandalo in cui non fosse coinvolto qualche italiano. Per usare il linguaggio schietto, abrasivo, del cardinale Pell, a chi faceva notare che ci sono ormai pochi italiani in posizioni di vertice negli organismi economici, «non siamo il Vicariato di Roma, ma la Chiesa universale». Il volume di Nuzzi dedica alla «ascesa del cardinale Pell» il penultimo capitolo, prima di concludersi con l’interrogativo se, dopo il primo affaire vatileaks e la rinuncia al pontificato di Benedetto XVI, «anche Francesco si dimetterà». C’è da escluderlo.

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Per approfondire

  • Tango vaticano di Iacopo Scaramuzzi (edizioni dell’Asino, 2015)
  • La banca del Papa di Francesco Peloso (Marsilio, 2015)
  • La cassa del Vaticano di Jason Berry (Newton Compton, 2012)
  • I nemici di Papa Francesco di Nello Scavo (Piemme, 2015),
  • Pope Francis. Untying the knots di Paul Vallely (Bloomsbury, revised and expanded edition, 2015).
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