Costume
Tutti dietro la salma di Sanremo
Per controbilanciare la vista delle decine di migliaia di italiani che hanno bloccato il traffico di Roma per portare in processione la salma di Padre Pio ho provato a mandare messaggi su Tinder a donne che non mi piacevano, a guardare su Netflix documentari a caso, a leggermi il programma di Bernie Sanders su Facebook immaginando una svolta epocale nella politica americana.
Ho provato, insomma, a fare di tutto per convincermi che in Italia fosse il 2016 e non il 1970.
Poi è cominciato il Festival di Sanremo.
Credevo che l’ultimo chiodo sulla bara di un programma che sta alla modernità quanto il dagherrotipo all’Iphone fosse stata la vittoria dei Jalisse nel 1997. Già allora, ricordo che guardavo il tastierista far finta di suonare “Fiumi di Parole” e provavo un senso di angoscia, come davanti a una premonizione di un qualcosa di terribile che mi attendeva nel buio. Una sera mia madre entrò in camera mia mentre c’era Chiambretti vestito da angelo che parlava con Valeria Marini: la vergogna fu molto superiore che se mi avesse beccato a guardare “Vizi Privati Pubbliche Visioni” con Maurizia Paradiso. All’inizio del millennio, quando il parrucchino di Baudo cominciò ad assumere cinquanta sfumature di grigio-topo e perfino la nemesi baudiana, Striscia la Notizia, smise di occuparsi della kermesse canora, credevo che la polvere di un Paese che andava a letto dopo il Carosello e votava DC ce la fossimo finalmente scrollata di dosso. Che il Futuro fosse li, a portata di mano. Vedevo la Liberazione, ero pronto a riconsegnare le armi e a godermi il Festival appeso a testa in giù.
La realtà è che non eravamo neppure arrivati all’8 settembre.
Non avevo vissuto la gara a chi fa il tweet più simpatico, lo status (si dice ancora così?) più sagace, l’osservazione più acuta. Sempre tra le virgolette, come vuole l’estetica campy che solo iddio e Daniele Luttazzi sanno cosa sia, sempre – ci mancherebbe – sdrammatizzando per finta, ostentando distacco, magari scomodando Luchino Visconti (che radunava gli amici per sghignazzare di Sanremo in casa sua). Peccato che Luchino non cercasse l’occhiolino o la pacca sulla spalla o tutto quello che per il drogato di social rappresenta il like.
Ecco cos’era quella cosa terribile che mi attendeva nel buio: la ricerca onanistica del like, il comune feticismo per il piedistallo su cui salire per scuotere il cervello davanti agli altri come acculturate cubiste, la generale perversione per il numerino blu da dare in pasto al proprio ego arrapato. La necessità incontrollabile di convalidarsi con sé stessi e con amici e conoscenti. E il fatto che questa convalida, questa gigantesca seduta di auto-erotismo, per quanto sempre presente scatti con questa violenza e pervasività solo grazie al Festival di Sanremo, significa che il Paese è, esso stesso, il Festival di Sanremo.
Un Paese ai piedi del Conduttore Unico, ad adorarlo come durante una seduta sadomaso, senza che nemmeno importi più né chi sia né se abbia un talento in particolare, basta che detti i tempi e non ci sia nessuno a contrastarlo. Dove le sorprese, le passioni, i colpi di scena vanno bene, purché previsti dalla scaletta e tutto sia ordinato, funzionale secondo copione, fatto a pezzettini piccoli per essere compreso anche dal più rincoglionito dei “telemorenti”, come li chiama Dagospia.
Dove la critica è accettata, si, ma solo “tra le virgolette”, insomma al guinzaglio – senza le virgolette.
Dove chi ha gioito perché è arrivato Netflix poi non si è abbonato, o se lo ha fatto a Louis CK preferisce Carlo Conti. Un po’ come le ragazze che hanno Tinder sul cellulare, ma solo per divertimento, per ridere in pausa pranzo con le amiche, mica per uscirci per davvero. Un po’ come chi parla dell’importanza delle primarie come grandissimo strumento di democrazia e si infervora se hai un dubbio su Sala, ma se gli parli della rivoluzione che sta mettendo in piedi Bernie Sanders ti dice “chi scusa?”.
Un Paese insomma, dove c’e’ un Tempo Esteriore che leggiamo sugli schermi dei nostri smart-phone mentre con una city-car andiamo in ufficio a fare una conference-call e un Tempo Interiore, che dentro di noi scorre adagio come un pomeriggio assolato d’agosto, nel quale stravaccati sul divano, avendo rinunciato da tempo alla scalata sociale il massimo che sogniamo sono venti, trenti like per una battuta su Garko che scende la scalinata del festival.
Un Paese, insomma, in cui la Prima Repubblica di Checco Zalone non è satira ma cronaca – aspettando di vedere quali saranno le sorti del DDL Cirinnà alla luce della processione di cui sopra.
A Capodanno, ci sono state molte polemiche perché l’orologio di Rai Uno era in anticipo. Guardando gli ascolti TV del festival, roba che nemmeno in Bulgaria, e la morbosa attenzione che attira, credo che non fosse l’orologio a essere in anticipo, ma il Paese in ritardo.
Purtroppo non solo di un minuto.
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