Religione

Trent’anni fa, a Venezia, fu scoperto il Corano stampato più antico del mondo

28 Luglio 2017

Quello del 1987 era un luglio torrido come questo. In un afoso pomeriggio di quel luglio di trent’anni fa una giovane dottoranda in bibliografia e biblioteconomia, Angela Nuovo, accompagnata dal suo docente, Giorgio Montecchi, sta andando in battello verso l’isola di San Michele, nella laguna di Venezia. Per i non pratici dei luoghi, si tratta del cimitero, ovvero dell’isola che si trova tra le Fondamente Nuove e Murano.

Angela Nuovo era bibliotecaria alla Braidense di Milano, oggi è ordinaria di storia del libro a Udine; Giorgio Montecchi insegnava a Venezia, oggi è docente di Storia degli archivi e delle biblioteche alla Statale di Milano. Nuovo si occupava di un editore cinquecentesco, Alessandro Paganini, figlio di Paganino, pure lui stampatore, originario di Toscolano Maderno, sulla sponda bresciana del lago di Garda. Nessuno dei due poteva neanche lontanamente immaginare che stavano per fare la scoperta del secolo, l’equivalente nell’editoria di ciò che Howard Carter e Lord Carnavon avevano fatto per l’egittologia, ritrovando la tomba di Tutankhamon.

Andiamo con ordine. Trent’anni fa non esisteva internet, per sapere cosa una biblioteca contenesse bisognava fisicamente andarci. La biblioteca francescana dell’isola di San Michele era una delle tante raccolte monastiche minori, tenuta in scarsa considerazione. «Era una biblioteca sconosciuta agli studiosi. D’altra parte eravamo convinti che non ci fosse nulla di interessante perché gran parte del materiale era confluito alla Marciana», spiega Montecchi. Proprio in quel periodo, però, il ministero del Beni culturali aveva realizzato un catalogo delle cinquecentine, dal quale risultava che nel convento del cimitero di Venezia era conservata una delle due copie esistenti al mondo di un esercizio spirituale di Antonio da Atri, pubblicato dai Paganini nel 1514.

Restava però da superare un ostacolo apparentemente invalicabile: il  bibliotecario, ovvero padre Vittorino Meneghin che non voleva intrusi tra i propri libri. Questi è un frate originario di Fener di Alano di Piave, stesso luogo di nascita di un altro illustre Meneghin, che di nome fa Dino. Il più famoso giocatore italiano di basket e il bibliotecario sono compaesani, omonimi, ma non parenti.

Come spesso accade, è il caso a risolvere la situazione: la direttrice della biblioteca centrale dell’università di Venezia, è una penitente proprio di fra’ Vittorino, e quindi è lei a fare da intermediaria, combinando l’appuntamento tra i due studiosi e il padre bibliotecario.

Il motivo per cui il francescano non vuole ammettere nessuno nella biblioteca è perché teme che l’amministrazione cittadina gli sottragga i suoi amati libri. Come emergerà più tardi, non tutto il fondo antico del monastero era stato consegnato: vi sono ancora custoditi numerosi manoscritti che erano stati nascosti e non avevano mai lasciato l’isola. Inoltre una stanza della biblioteca ospitava alcune migliaia di volumi, forse cinquemila, qualcuno antico, la maggior parte della prima metà dell’Ottocento, tutti marchiati col bollino «Comune di Venezia». Si trattava con ogni probabilità di un vecchio fondo che il Municipio aveva depositato a San Michele e del quale si era del tutto dimenticato.

Il due scendono al pontile di San Michele assieme a un consistente numero di anziane signore che vanno a visitare i loro defunti mariti. Mentre le vedove veneziane proseguono lungo il chiostro per accedere ai vari campi del cimitero, Angela e il professore si infilano in una porta sulla sinistra, per immergersi nel fresco garantito dalle spesse mura del convento. Il volume che avevano domandato è lì che li aspetta.

Poi, Angela Nuovo consulta il catalogo, meticolosamente compilato da padre Vittorino. Si lascia incuriosire da un libro schedato come “Alcoranus arabicus sine anno” e chiede di poterlo vedere. Lei però non può entrare perché la biblioteca si trova all’interno della clausura, dove non sono ammesse le donne. Quindi è Montecchi a salire assieme al francescano e quando i due tornano, il professore ha dipinta sul volto un’espressione di trionfo: uno storico del libro riconosce immediatamente una cinquecentina e quel Corano a stampa indubbiamente lo è. Angela Nuovo lo prende tra le mani, lo esamina ed esclama: «È lui». Il Corano perduto, stampato a Venezia nel 1538 da Paganino e Alessandro Paganini riemerge così dalle tenebre della storia.

Si sa, perché lo riferisce egli stesso, che quel volume era stato posseduto da un arabista di Pavia vissuto tra XV e XVI secolo: Teseo Ambrogio degli Albonesi. Sulla copia del Corano a stampa conservata a San Michele c’era la sua firma. «Conoscevo altre opere provenienti da quella biblioteca, la grafia era la stessa. Inoltre la nota di possesso identificava il libro, perché l’uomo era morto nel 1540». Per di più l’attività tipografica di Paganini si era interrotta nel 1538, proprio a causa della pubblicazione del Corano. «Lo ha ritrovato lei, ogni ritrovamento è un riconoscimento e lei lo ha riconosciuto» concede Giorgio Montecchi. Un paio di mesi dopo lo annuncia al mondo dalle pagine di una rivista specializzata “La Bibliofilia”.

Quel Corano, dopo esser stato in mano a Teseo degli Albonesi, è diventato proprietà di padre Mancasula de Asula, inquisitore generale di Como, e poi sparisce. Nessuno ne sa più nulla fino a quando, a 450 anni di distanza, ricompare proprio nella città dov’era stato stampato. Padre Meneghin, che l’aveva catalogato, non si era reso conto di cosa in realtà fosse quel volume (e infatti non era proprio entusiasta del ritrovamento: aveva custodito per 50 anni il Sacro Graal dell’editoria senza esserne consapevole).

I Paganini, in sostanza, avevano cercato di vedere frigoriferi agli eschimesi: stampare il Corano li avrebbero resi ricchi e famosi, se l’operazione fosse andata in porto. Invece fallisce e il crac è talmente pesante da trascinare con sé l’intera stamperia che, infatti, dal 1538 cessa di operare. Cosa sia successo non si sa. Una fonte tedesca seicentesca, quindi tarda e non attendibile, riferisce che Alessandro Paganini era andato a Costantinopoli per mostrare il libro al sultano e per poco non ci aveva rimesso la testa: era stampato e non manoscritto, era stampato da un infedele e per di più pieno di errori (e questo è accertato, la copia conservata è infarcita di refusi). Quindi il sultano avrebbe fatto affondare la nave con le copie a bordo, e addio a tutti. Non si sa se sia vero, e certo invece che i caratteri arabi vengono acquistati dallo stampatore parigino Guillame Postel.

Di quel Corano si vagheggia la memoria, viene citato in letteratura, ma non salta mai fuori. tanto che nel 1984, ovvero tre anni prima che fosse rinvenuto, un orientalista lo bolla come una leggenda. Quando i britannici ritrovano la tomba di Tutankhamon lo fanno sapere a tutto il mondo, quando gli italiani ritrovano il primo Corano a stampa in arabo del mondo, che succede? Niente. I giornali di allora non ne parlano, con l’eccezione di un trafiletto su “Famiglia cristiana” e di un articolo dell’arabista Sergio Noja pubblicato ben due anni dopo in “il Giornale”. Per il resto, silenzio. Anche l’università fa finta di nulla. Anzi, Angela Nuovo diventa oggetto di sgarberie che preferisce non ricordare. L’unico commento è di Giorgio Montecchi: «Il mondo accademico è maschilista», sibila.

Passati trent’anni, oggi il Corano di Paganino e Alessandro Paganini non si trova più nell’isola di San Michele. Il convento francescano del cimitero è stato chiuso e la biblioteca trasferita nel dirimpettaio convento di San Francesco della Vigna, a Venezia. «La scoperta del Corano non è entrata tra gli elementi della conoscenza generale, come la Bibbia di Gutenberg, o le edizioni di Aldo Manuzio. Che il primo Corano sia stato stampato a Venezia non lo sa quasi nessuno. Eppure quello è il livello più alto mai raggiunto dalla tipografia veneziana», conclude Montecchi.

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