Religione
Rito, superstizione, teatro all’ombra della camorra
È stato, dal punto di vista antropologico, uno degli spettacoli “teatrali” più sconvolgenti degli ultimi anni. Il lunedì dell’Angelo, la famosa pasquetta, mi sono alzato alle cinque e mezza a Napoli; ho preso la circumvesuviana e sono sceso a Cercola, sotto il Vesuvio, per avviarmi poi, a piedi, al santuario di Santa Maria dell’Arco. Molti conosceranno la leggenda di questo luogo: basta dare un’occhiata a Wikipedia per scoprire una storia che viene fatta risalire addirittura al XIV secolo. Si narra di un noto bestemmiatore che scagliò una boccia contro l’immagine della Madonna, provocando un taglio, sanguinante, sul ritratto. Poi si racconta di altri miracoli. Da allora, l’icona è oggetto di culto e devozione.
Chi si occupa di teatro fa spesso i conti con la ritualità, con la teatralità diffusa, con tutto quel “teatro” che appare nascosto dietro mille usanze popolari. Rito e teatro, si sa, sono spesso fusi: il teatro è nato dalle feste in onore di Dioniso dell’antica Grecia e da allora a oggi poco sembra essere cambiato. Si sono aggiornati dei e divinità, officianti e fedeli, ma la struttura di fondo, e la funzione, non sono così mutate.
L’antropologia teatrale, poi, che dobbiamo anche al pensiero e all’azione di Eugenio Barba, ha sviluppato una vasta teorizzazione in merito, indagando momenti comuni tra civiltà d’oriente e occidente, tra passato e presente, tra quotidiano e extraquotidiano. E allo studioso americano Richard Schechner dobbiamo l’insegnamento che al massimo di formalizzazione stilistica corrisponde un minimo di partecipazione del pubblico, e viceversa. Tra i due estremi (il rito da un lato, lo spettacolo dall’altro) ci sono le infinite varianti di una performatività che tocca in svariato modo ogni società umana.
Ebbene, quel che ho visto a Santa Maria dell’Arco è frutto di una manifestazione che prevede al tempo stesso una formalizzazione e una partecipazione popolare straordinaria. È un rito, cattolico e pagano. Ma è, anche e forse di più, una travolgente e sconvolgente prova del totale fallimento della Ragione, scalzata dalla superstizione.
Dall’alba i “devoti”, riuniti in “paranze”, si presentano a piedi, spesso scalzi, con un tradizionale abito bianco che prevede una fascia azzurra orizzontale di traverso sul petto, e un’altra fascia rossa sui fianchi. Arrivano alla chiesa in gruppi o famiglie, seguendo un gonfalone, con ritratti di Padre Pio, della Madonna, di Gesù. Sono là per un “voto” che ciascuno di loro ha fatto. Entrano in chiesa in silenzio, molti in ginocchio, altri addirittura strisciando completamente distesi a terra. Vecchi, donne, bambini, malati, giovani: volti segnati, corpi sfatti, altri tonici e muscolosi. Alcuni alzano un canto che è invocazione in onore della Madonna, in un dialetto talmente stretto da risultare incomprensibile. Sono tanti, tantissimi. Sottovoce mi dicono che la gestione degli autobus per portare i pellegrini sono “appaltati” alla camorra. E in giro si notano volti che farebbero felici i lombrosiani di ritorno.
Il rito procede in una partecipazione assorta, solo un omaggio all’icona, sollecitati da un frate che con un microfono invita a sveltire la procedura. Però ci sono svenimenti, addirittura casi di trance.
Poi, fuori, finita la funzione religiosa, si ballano tarantele e tammurriate al ritmo di tammorre, castagnette e tamburelli, in un clima di liberazione diffusa, dopo la pesantezza tragica della processione.
C’è tanta sincera devozione, questo va detto, anche onesta credulità e compassione. Ma il clima che si respira è però – almeno per l’antropologo improvvisato qual ero – quello di un ritorno indietro di secoli. Superstizione religiosa, ritualità posticcia e popolare, oscurantismo ecclesiale: in questa cerimonia, l’istruzione, la scuola, il pensiero critico abdicano di fronte a una forma, a una “processione”, in cui è facile rintracciare quelle che sono le fondamenta fideistiche, barocche, oscure di cui è impastata l’Italia. Sono in gioco gerarchie, mitologie, credenze. La Ragione vacilla, stenta a credere, a capire come possa essere possibile, ancora oggi, tanta ingenua illusione. La sconfitta è innegabile: perché poi, difatti, la processione non è ad uso e consumo dei turisti, non è una “sacra rappresentazione” destinata a richiamar folle di curiosi. No: qua si avvertono radicamento e convinzione intaccate e immutabili, a fianco di una teatralità esibita, retorica, dimostrativa. Un episodio: entra in chiesa un gruppo famigliare. Il capofamiglia, molto anziano, avanza in ginocchio con grande fatica. Lo aiutano due giovani palestrati: capelli a zero, orecchino, vistose scarpe da ginnastica. Il vecchio cede, si mette carponi, non ce la fa ad alzarsi. Nel gruppo si alza la voce, quasi un grido disperato, di una donna: “papà, ti voglio bene” esclama battendosi il petto e piangendo straziata la sua dimostrazione d’affetto.
La Chiesa, ovviamente, accetta e forse caldeggia questi omaggi rituali.
Lo Stato – pure presente: c’erano carabinieri, servizio civile a controllare che tutto andasse bene, e non ci sono stati incidenti – sembra arretrare, fare un passo indietro. L’Italia è, o forse avrebbe dovuto essere, uno Stato laico. Abbiamo avuto l’ennesima riprova che così non è: si tratta semmai di uno stato confessionale, al pari dell’Iran o dell’Arabia Saudita. È un’Italia che non cambia, che non è cambiata per tutto il Novecento. Che crede nel miracolo, nell’intercessione, nel voto alla Madonna, che si inginocchia di fronte all’altare chiedendo perdono per chissà quali peccati. Quel misto di sacro e profano, di cattolico e pagano, di ecclesiastico e civile, quella pastoia di credenze e supponenze, di arroganza e sopraffazione: un’Italia forse contadina, ormai omologata su tanti aspetti – soprattutto quelli biecamente commerciali. È l’Italia delle lucciole rimpianta da Pasolini? Quel mondo puro e incontaminato ancora non travolto dall’industria e dalla televisione? No: qui semmai la televisione è “maestra di vita”. Dunque si avvera un nuovo paradosso, quello di un legame tra (in)civilità di allora e (in)civiltà di oggi. Il tutto si tiene nelle braccia di quella grande madre che è la chiesa cattolica apostolica romana. E la camorra, lì attorno, sta a guardare.
(l’immagine di copertina è di Michele Vitolini)
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