Relazioni
Quando i conti del matrimonio non tornano
Negli ultimi anni mi sono ritrovato, un po’ per caso, a seguire il cammino di un certo numero di coppie e soprattutto ad accompagnare gruppi di famiglie nel loro cammino di fede. Devo ammettere che all’inizio ero un po’ scettico, mi sentivo ovviamente impreparato, ma il loro desiderio sincero mi ha fatto capitolare. Per me si è trattata di una rivelazione che mi ha fatto comprendere meglio perché nella Bibbia venga usata con insistenza l’immagine sponsale per parlare dell’amore di Dio.
Le coppie di sposi mi colpiscono – lo dico sinceramente – per il loro coraggio e mi stanno insegnando cosa vuol dire dare la vita per un altro. Resto sempre meravigliato del loro desiderio di giocarsi la propria vita sulla vita di un altro: un altro che può sempre cambiare, tradire, venire meno. Sposarsi vuol dire limitare la propria vita: lasciare che l’altro diventi un confine per me. Vuol dire ritrarsi e fare spazio a un altro. Vuol dire accettare di essere tirati fuori ogni giorno dal proprio egoismo radicale. In altre parole, sposarsi vuol dire incarnare l’amore!
Credo che solo se noi preti guardiamo alla realtà umana del matrimonio, non in maniera idealizzata, non pensando alle famiglie del Mulino Bianco o, per i più vecchi come me, alla Casa nella prateria o alla Famiglia Bradford, ma alle coppie di sposi che realisticamente, nella fatica quotidiana, provano a rimanere fedeli l’uno all’altra, solo allora possiamo aprire la Bibbia e rileggere quella Parola nella quale Dio si presenta come sposo dell’umanità, proprio come in questo testo del Vangelo di Giovanni.
Queste scene da un matrimonio ci insegnano innanzitutto che nella vita umana ci sono dei tempi, delle ore, momenti diversi: c’è il momento della festa, dell’innamoramento, ma c’è anche il momento in cui il vino viene a mancare e la festa rischia di finire in anticipo. Ci sono ore in cui Dio si rivela nella nostra vita e tempi in cui sceglie di rimanere in silenzio. Ci sono tempi della vita in cui siamo ricchi e possiamo rendere partecipi gli altri della nostra gioia e tempi in cui siamo poveri, come questa coppia di sposi, che non aveva vino sufficiente da condividere. Mi piace però pensare che il vino sia venuto a mancare perché gli ospiti sono stati più del previsto: mi fa pensare ad una coppia che sa accogliere senza misura, una coppia a cui si vuole bene, persone con le quali ci si sente sempre a casa.
Qualche esegeta infatti sostiene che il vino sarebbe venuto a mancare perché si tratterebbe di una coppia povera. Personalmente preferisco pensare che il vino sia venuto a mancare perché avevano tanti amici. Per questo sarebbe bello se il vino in ogni casa venisse a mancare a causa di una smisurata accoglienza: solo se metteremo a disposizione degli altri il poco o il tanto vino che abbiamo, solo se lasceremo che si consumi, allora Cristo verrà e ripeterà il miracolo, donandoci non un vino qualsiasi, ma il vino buono.
Una relazione che non si apre agli altri è destinata a bere sempre e solo il proprio vino, finché c’è, fin quando non inacidisce.
Mi capita anche di incontrare coppie tristi e arrabbiate, che somigliano molto alle anfore vuote di questo testo del Vangelo. Anfore di pietra, proprio come il cuore che si indurisce nel tempo, a causa delle delusioni e della mancanza di perdono. Le anfore a cui Giovanni fa riferimento erano usate per contenere l’acqua che veniva utilizzata per le abluzioni, cioè per lavarsi per bene le mani così come la legge prescriveva.
Ecco, a volte è la legge, il dovere, la preoccupazione che i conti dell’amore tornino, a farci diventare vuoti come quelle anfore. Se le anfore non vengono riempite dal vino della gioia e del perdono non servono più a niente: diventano simulacri inutili, come il nostro cuore inaridito e arrabbiato. Gesù non trasforma solo l’acqua in vino, ma trasforma anche le anfore: non sono più lo strumento per rispettare la legge, ma sono il canale per far arrivare la gioia. Quando in una coppia si comincia a voler precisare le responsabilità e i doveri, vuol dire che il cuore è già diventato un’anfora vuota.
Giovanni parla di sei anfore. Un numero che ricorre anche nel racconto dell’incontro di Gesù con la Samaritana: sei mariti. Il numero sei indica imperfezione, indica qualcosa che va completato. Per la Samaritana, il settimo marito sarà lo sposo vero, colui che le sta parlando, Gesù. Allo stesso modo, la settima anfora sarà il costato di Cristo sulla Croce, da cui scaturirà acqua e sangue.
Dio non può che spiegarsi attraverso un linguaggio umano, l’unico che comprendiamo: alla fine del banchetto di nozze, il maestro di tavola ringrazia lo sposo senza nome che ha donato agli ospiti il vino buono. Qui Gesù non è soltanto colui che fa un regalo di nozze, qui Gesù è lo Sposo. È colui che sposa l’umanità.
Per questo solo incontrando la realtà umana del matrimonio, possiamo imparare qualcosa in più di come Dio ama il suo popolo. Gesù è lo sposo di quella terra che non sarà più chiamata Abbandonata né Devastata (cf Isaia 62). È così che Gesù mi ama, come uno sposo!
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Testo
Leggersi dentro
A che punto è il vino? Ce n’è ancora o dobbiamo organizzarci per un miracolo?
Cosa dice alla tua vita l’immagine di Gesù come sposo?
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