Religione

La Chiesa di Bergoglio, aperta al futuro e insidiata dai veleni

23 Ottobre 2015

Alcuni dei cardinali, alla fine, avevano il volto raggiante, altri raggelato. Papa Francesco ha voluto dedicare al 50esimo anniversario dell’istituzione, da parte di Paolo VI, del Sinodo dei vescovi, sabato 17 ottobre scorso, una commemorazione pubblica nel mezzo del Sinodo sulla famiglia. Discorso cruciale, scandito parola per parola, che ha dato la linea ad un’assemblea fino ad allora indefinita. E, alla fine, ha toccato il nervo scoperto della «decentralizzazione» della Chiesa cattolica.

L’assemblea ordinaria in Vaticano, iniziata lo scorso quattro ottobre, si concluderà, dopo tre settimane, il prossimo fine settimana. Domenica il Papa celebrerà una messa finale in San Pietro, sabato i circa 300 padri sinodali voteranno, paragrafo per paragrafo, una relazione finale. Quella in corso è la seconda assemblea in due anni, dopo quella straordinario dell’ottobre 2014, che Jorge Mario Bergoglio ha voluto dedicare allo stesso tema, la famiglia. L’anno scorso la relazione finale finì con tre paragrafi-chiave che non raggiunsero il quorum dei due terzi dei voti, quelli sulla comunione ai divorziati risposati e quello sull’omosessualità. Una mezza sconfitta per i bergogliani, che speravano di certificare un’apertura misericordiosa sull’eucaristia a chi ha fallito un primo matrimonio, una figuraccia per i conservatori, che bocciarono, sui gay, un paragrafo che si limitava a ribadire il catechismo della Chiesa cattolica e un pronunciamento della congregazione per la Dottrina della fede di Joseph Ratzinger, non una parola di più. Difficilmente domani andrà diversamente. Il Sinodo, no, non è un «parlamento», Papa Francesco lo ha detto, ma gli schieramenti, conservatori versus progressisti, rigoristi contro aperturisti, reazionari allarmati da una parte riformisti fiduciosi dall’altra, ci sono eccome, come ci sono fronde, strategie concordate, franchi tiratori. Il Sinodo ributterà probabilmente la palla nel campo del Papa, chi sperando che sia lui, nel quadro del giubileo della misericordia, a pronunciarsi per prassi ecclesiali più misericordiose verso chi vive situazioni famigliari irregolari, chi sperando di inchiodarlo, privo del sostegno collegiale, al solitario status quo magisteriale. L’assemblea non dirà l’ultima parola.

Era difficile, del resto, pensare a evoluzioni spedite su un argomento sul quale la Chiesa cattolica non dibatteva da decenni. La famiglia, la sessualità, la vita, sono state campo riservato a interventi pontifici e vaticani ispirati all’immutabilità, al sospetto nei confronti della modernità e del mondo, al timore di una deriva libertaria della società. Piattaforma ideale di intere conferenze episcopali per solide alleanze con George W. Bush negli Stati Uniti, Silvio Berlusconi in Italia, i fratelli Kaczynski in Polonia o per mobilitare le masse contro José Luis Rodriguez Zapatero in Spagna o i «Dico» di Romano Prodi.

La famiglia è un tema capace far emergere la distanza tra la vita quotidiana dei fedeli e l’insegnamento del magistero, di far esplodere distanze e attriti tra sensibilità diverse, in particolare su nodi quali l’omosessualità o la contraccezione, addirittura di portare alla luce idee diverse di Chiesa, perché dietro un tema come riammettere o meno all’eucaristia alcune coppie di divorziati risposati si nasconde, ben oltre un semplice fatto disciplinare, la definizione di eucaristia, premio per i fedeli o grazia per i peccatori, e la stessa concezione di Chiesa, luogo di culto per l’ortodossia o «ospedale da campo» aperto ai feriti. Un tema, insomma, quello della famiglia, che può spaccare, dividere. E che proprio per questo motivo Jorge Mario Bergoglio – il primo Papa che non ha partecipato al Concilio vaticano II dopo Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, e che forse proprio per questo lo dà per acquisito – ha voluto affrontare. Evitando così che, come ogni problema trascurato, esplodesse poi, in futuro, come un bubbone capace, questa volta sì, di creare fratture irrimediabili, per non dire scismi. Il Papa ha invece introdotto una discussione aperta, franca, collegiale. Sfidando qualche taboo. Costringendo la Chiesa a confrontarsi con la modernità e con la globalizzazione. A costo di qualche scossone. Del resto anche i primi apostoli, ha avuto a dire, litigavano.

Assieme alle litigate, certo, arrivano anche sospetti, veline e veleni. Lo dimostra la lettera che gli hanno privatamente consegnato 13 cardinali, tre dei quali sono capi-dicastero in Vaticano, George Pell, Gerhard Ludwig Mueller e Robert Sarah, per metterlo in guardia da una manipolazione del Sinodo, poi sbucata su un blog italiano una settimana dopo, quando il Papa aveva già risposto alle obiezioni in aula. Nell’inner circle bergogliano c’è poi chi interpreta come propaggini della fronda anche la bufala del tumore al cervello curato da un luminare giapponese, lanciata da un quotidiano verso la fine del Sinodo, o, alla vigilia, il coming out in conferenza stampa del monsignore polacco Krzysztof Charamsa: perché un signore che, legittimamente, decide di abbandonare l’abito talare e il celibato, eterosessuale o omosessuale che sia, ponga una questione alla Chiesa o porti avanti la causa gay, è, in realtà, tutt’altro che chiaro, ma l’effetto mediatico è stato il disordine, subito utilizzato ad esempio dal cardinale Camillo Ruini per un discorso generale sulle coppie di fatto e sulla necessità che il Sinodo non facesse scelte dottrinali avventate. Nel prossimo futuro, ancora, è in uscita un bestseller di Gianluigi Nuzzi, prevedibilmente un Vatileaks 2.0 sulle finanze vaticane. Il rischio, per il Vaticano, è di cadere in una lettura complottistica del mondo, se non nella fantapolitica. Di certo alcuni si muovono nell’ombra, uomini di Chiesa e non solo, allarmati da un Papa che stravolge molti equilibri. Temono che, aperta una falla (ma quale?), crolli l’intera diga della Dottrina cattolica. Impossibile, però, riportare le lancette dell’orologio indietro al Conclave del 2013, quando un’ondata di indignazione, nel collegio cardinalizio, decise, sulla spinta delle dimissioni choc di Benedetto XVI, di chiudere per sempre l’epoca degli scandali così intimamente legati ad una gestione tutta italiana e romana dello Stato pontificio.

Era forse inevitabile che toccasse al primo Papa latino-americano della storia, al primo Pontefice del global south, scongelare una Chiesa profondamente romana e profondamente globale. Mai come a questo sinodo sono emerse le differenze culturali all’interno della Chiesa. Tra i tedeschi che propongono soluzioni teologicamente articolate sulla comunione ai divorziati risposati e gli esteuropei pro life, tra il cardinale di Tonga che parla di famiglie schiacciate dallo «tsunami» del materialismo e i patriarchi mediorientali che parlano di famiglie sfollate per la guerra, tra i nord-americani preoccupati dal consumismo e gli africani preoccupati da poligamia e povertà, al Sinodo è andata in scenda una Chiesa estremamente variegata. Per la prima volta, in particolare, si è posta una sorta di questione africana, i vescovi di quel continente si sono coordinati, riuniti, hanno fatto sentire la loro voce. Qualcuno, come l’arcivescovo di Philadelphia, il conservatore Charles Chaput, ha provato ad indicarli come massa critica ostile al metodo scelto dai collaboratori di Bergoglio, altri, come il liberal Blase Cupich di Chicago, ha invece sottolineato che dagli africani gli occidenti possono imparare il valore delle famiglie allargate. La rivista Jeune Afrique ha scritto nei primi giorni del Sinodo «ogni prelato è stato contattato direttamente da una strana associazioni, Filiale supplique, emanazione di Tradizione, Famiglia e Proprietà, potente organizzazione di origine brasiliana che federa una rete internazionale di gruppi integristi pro-life, omofobi, antifemministi, ostili alla teoria del gender e vicina a ambienti di estrema destra». In realtà il continente africano è enorme e al suo interno vi sono differenze nazionali, sociali ed ecclesiali profonde. Che si riflettono anche nei quadri episcopali: in Curia romana, per dire, il guineano Robert Sarah, campione dell’ala conservatrice e prefetto della congregazione per il Culto divino, ha sensibilità diverse dal ghanese Peter Turkson, tra i principali collaboratori di Papa Francesco nella stesura dell’enciclica ecologica Laudato si’, nel collegio cardinalizio il francescano sudafricano Wilfrid Fox Napier ha priorità diverse dal suo confratello Stephen Brislin, presidente della conferenza episcopale sudafricana, portatore di una visione aperta e serena sul dialogo tra la Chiesa a la modernità, o dal nigeriano John Onayekan, tra i principali promotori di una pacificazione di un paese colpito dal terrorismo di Boko Haram.

Papa Francesco ha aperto la discussione. Non è chiaro quale sarà il prossimo passo, ma la Chiesa, finalmente, discute di Vangelo e famiglia. «Dobbiamo investire le nostre energie non tanto nello spiegare e rispiegare i difetti dell’attuale condizione odierna e i pregi del cristianesimo, quanto piuttosto nell’invitare con franchezza i giovani ad essere audaci nella scelta del matrimonio e della famiglia», ha detto il Papa ai vescovi statunitensi nella recente visita a Philadelphia. «Il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore e, benché sembri per un momento assicurare un’apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell’amore resta veramente convincente». La Chiesa cattolica non seguirà la Comunione anglicana, spaccata tra Chiese nazionali proprio su questioni come l’omosessualità. Ma per questo deve discutere, approfondire la propria dottrina, che può evolvere come ha sempre fatto nel corso della storia. Papa Bergoglio smuove le cose, le sue riforme sono tutt’altro che maquillage o marketing, incidono su interessi concreti, dentro e fuori la Chiesa. Come Giovanni XXIII, vuole un «aggiornamento» della Chiesa non perché sia cambiato il Vangelo, ma perché è cambiato il mondo in cui quel Vangelo va vissuto. E proprio dal Concilio Francesco è ripartito, con lo storico discorso del 17 ottobre, quando, commemorando l’istituzione del Sinodo, ha indicato la «sinodalità» come metodo per a tutti i livelli, da Roma all’ultima parrocchia, proprio di una Chiesa in ascolto, dove vescovi, sacerdoti, religiosi e laici camminano insieme, dove i pastori guidano, ma anche ascoltano, il «popolo di Dio», che ha «fiuto» per il sensus fidei. Quanto alle conferenze episcopali, «dobbiamo riflettere – ha detto il Papa – per realizzare ancor più, attraverso questi organismi, le istanze intermedie della collegialità, magari integrando e aggiornando alcuni aspetti dell’antico ordinamento ecclesiastico. L’auspicio del Concilio che tali organismi possano contribuire ad accrescere lo spirito della collegialità episcopale non si è ancora pienamente realizzato. Siamo a metà cammino, a parte del cammino. In una Chiesa sinodale, come ho già affermato – ha detto il Papa nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium – “non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”». Parola che ha raggelato alcuni, ha fatto gioire altri.

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