Religione
Lealtà a valori e ideali comuni: la lezione dell’ebraismo alle società liquide
Con l’avvicinarsi di Pesach (la Pasqua ebraica che inizierà la sera del 10 aprile) e con i conseguenti “preparativi” che più o meno tutti noi mettiamo in atto nelle nostre case – tutti noi inteso come più o meno osservanti, religiosi e no, credenti e agnostici –, quasi ogni volta mi interrogo, o meglio vengo interrogato sul “perché” di questa sorta di mistero che noi chiamiamo semplicemente identità.
Di anno in anno cerco risposte che il più delle volte convincono i miei interlocutori soltanto dal punto di vista emotivo, lasciandoli per lo più freddini sulla “razionalità” del tutto. E come dar loro torto? Se perfino un totem del pensiero come Sigmund Freud questo scriveva nel 1930 come prefazione all’edizione in ebraico di “Totem e tabù”: «Nessun lettore di questo libro troverà facile mettersi nella posizione emotiva di un autore che ignora la lingua delle Sacre Scritture, che è completamente estraniato dalla religione dei suoi padri […] ma che non ha mai ripudiato il suo popolo, che sente di essere nella sua essenza un ebreo e che non desidera cambiare questa sua natura. Se gli si ponesse la domanda: “Ma se avete abbandonato tutte queste caratteristiche comuni, cosa resta in voi di ebraico?” egli risponderebbe: “Moltissimo, probabilmente l’essenziale”. Non potrebbe per ora esprimere a parole questo essenziale. Ma un giorno o l’altro, sicuramente, esso diventerà accessibile alla nostra scienza».
Il mistero che la “scienza” non ha ancora svelato – né credo mai farà – può forse essere se non spiegato certamente accompagnato dalle parole che anni fa scrisse rav Jonathan Sacks, già rabbino capo della Gran Bretagna e del Commonwealth, e che riporto volentieri. Ragionando sul “rashà”, il figlio ribelle della Haggadà, e sul suo dire «voi» e non «noi» durante le domande rituali dei diversi figli durante le cene di Pesach, rav Sacks insegna: «L’ebraismo è essere in comune. Questo è il principio che il bimbo ribelle nega. L’ebraismo si indirizza agli individui. E nemmeno si indirizza all’umanità intera. Dio ha scelto un popolo, una nazione, e al Monte Sinai gli ha chiesto di promettere fedeltà, non solo a lui, ma anche a se stessi fra di loro. “Emunà”, parola chiave normalmente tradotta come “fede”, più propriamente indica lealtà – a Dio, ma anche al popolo che Egli ha scelto come portatore della Sua missione, testimone della Sua presenza. È vero, a volte gli ebrei sono esasperanti. Rashì, nel suo commento all’incarico che Mosè fa al suo successore Giosuè, scrive che egli gli disse: “Sappi che loro [il popolo che stai per condurre] sono importuni e contenziosi”. Ma gli ha anche detto: “Tu sei fortunato perché avrai il privilegio di condurre il popolo di Dio in persona”. In questa idea fondamentale esiste una misura di speranza. Certo, oggi non tutti gli ebrei seguono la legge ebraica. Ma molti che non la seguono, si identificano comunque con Israele ed il popolo ebraico. Perorano la sua causa. Sostengono le sue cause. Quando Israele soffre anche loro sentono dolore. Sono implicati nel destino del popolo. Sanno fin troppo bene che “Israele oggi è perseguitato e oppresso, odiato, tormentato e sopraffatto da afflizioni”, ma non voltano le spalle. Possono non essere osservanti, ma sono leali – e la lealtà è una parte essenziale (anche se solo una parte) di ciò che è la fede ebraica. Quindi, dal negativo possiamo arrivare al positivo: che un ebreo che non dice “voi” quando Israele viene attaccato, ma “noi”, ha fatto un’affermazione fondamentale – di essere parte di un popolo, condividendo le sue responsabilità, identificandosi nelle sue speranze e timori, celebrazioni e tristezze. Questo è il patto, ed ancora oggi ci chiama all’appello».
E, pensateci bene, questo concetto di lealtà profonda verso ideali e valori comuni non è ciò che oggi manca alle nostre società e le mina dalle fondamenta?
Buona Pasqua e buon Pesach a tutti.
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