Religione

Le religioni sono vie di pace. Falso!

28 Marzo 2022

«Ho ormai rinunciato a spiegare che non c’è nulla di più ebraico che dire che non si è dei buoni ebrei, e che è decisamente ebraico credere di non essere quello che si dovrebbe essere. E’ invece la sicurezza di esserlo “proprio come si deve” che è generalmente sospetta. L’ebraismo non pretende alcun esame di ammissione a coloro che sono già nel suo seno. Non prevede alcun posto d’onore, non distribuisce medaglie, e ogni ebreo sa che per un altro ebreo la sua cucina non sarà mai abbastanza kasher e la sua osservanza abbastanza rigorosa. A prescindere» (D. Horvilleur)

Il titolo provocatorio di un piccolo pamphlet del sociologo Paolo Naso (Laterza, 2019) risuona con particolare evidenza in questa giorni di guerra e di polemiche sulle parole del patriarca di Mosca (per i pacifisti) o su quelle del papa (per i guerrafondai): le religioni sono vie di pace? Falso.

In quel testo l’autore provava a smontare alibi facili e autoassolutori: «è falso che le religioni siano modelli irenici; è falso che si debba a loro quel fragile concetto di ‘tolleranza’ che a partire dall’età moderna, ha permesso una certa coesistenza nella diversità delle appartenenze confessionali: è falso che al cuore delle religioni vi sia un’unica regola d’oro che le orienta verso la pacifica e costruttiva convivenza delle une con le altre; è falso, infine, che le religioni siano solo vittime di strumentalizzazioni di ordine politico o economico, queste sì ‘vere’ cause di ogni guerra».

Riprendere riflessioni teologiche non pare plausibile per affrontare davvero il problema. Resta così infatti inevaso il confronto sulla vita, la pratica religiosa o spirituale quotidiana. Il richiamo ai testi sacri è terreno scivoloso e assai controverso. Vi sono anche quelli che proprio rifacendosi a questi testi giustificano la violenza e la sopraffazione.

Rimane solo il confronto su convinzioni e valori profondi che davvero orientano la vita e le relazioni e danno vita ad esistenze di uomini e donne operatrici di pace.

Vorrei offrire un contributo alla riflessione con argomentazione espressa in un bel libro da poco in libreria. Non riguarda nello specifico questo tema.

E’ il racconto profondo nella riflessione, ma leggero nei toni, dell’opera di Delphine Horvilleur, rabbino francese di una delle correnti liberal dell’ebraismo contemporaneo che accettano anche le donne per questo ministero.

Il suo servizio è quello di celebrare la preghiera in occasione della sepoltura.

Il libro si intitola “Piccolo trattato di consolazione. Vivere con i nostri morti”.

E’ il racconto di alcuni suoi funerali, occasioni per le quali lei viene a conoscere la vita di coloro che verranno sepolti e che lei interpreta definendosi “narratrice”.

Racconta così la vita interrotta di tutti coloro per i quali ha pregato, cerca una connessione con le storie bibliche e quella foresta di miti e aneddoti della millenaria tradizione ebraica per cercare di dare un senso alla morte.

Non si sottrae alla riflessione sul senso del suo essere credente appartenente alla religione ebraica.

In questo ragionare ho trovato un lampo di luce che mi pare davvero illuminante per ciò che ci stiamo chiedendo: le religioni sono vie di pace?

Delphine racconta di aver pregato sulla tomba di Elsa Cayat, psicanalista, membro della redazione di Charlie Ebdo, vittima del terrorismo islamico, atea. La sorella la presenta così al gruppo dei sopravvissuti di Charlie e ai parenti: «Vi presento Delphine, il nostro rabbino. Ma non preoccupatevi, è un rabbino laico».

«Quel giorno, recitando una liturgia antichissima, i salmi e le preghiere ebraiche, di fronte ai sopravvissuti di “Charlie Hebdo”, non sono affatto diventata un “rabbino laico”, in compenso ho capito che lo ero sempre stata. Questa espressione che per alcuni è insensata racconta invece una verità profonda che non ero ancora riuscita a formulare. La laicità francese non contrappone la fede alla miscredenza. Non separa coloro che credono in un Dio vigile da coloro che credono non meno fermamente che sia morto o inventato. Non ha nulla a che vedere con tutto questo. Non si fonda né sulla convinzione che il cielo sia vuoto né su quella che sia abitato, bensì sulla difesa di un territorio mai colmo, sulla coscienza che resterà sempre un posto per una credenza diversa dalla nostra. La laicità dice che lo spazio delle nostre vite non è mai saturo di convinzioni, e garantisce sempre uno spazio vuoto di certezze. Impedisce a una fede o un’appartenenza di occupare tutto lo spazio. In questo senso la laicità è a suo modo una forma di trascendenza. Afferma che in essa esiste sempre un territorio più esteso della mia fede, capace di accogliere quella di un altro venuto lì a respirare.

Ho sempre avuto il presentimento che l’ebraismo portasse nel proprio lessico qualcosa che richiama questa idea. L’identità ebraica si fonda su un’assenza. Prima di tutto perché non fa proselitismo, non cerca di convincere il prossimo che ha in tasca l’unica verità. E anche perché fatica a formulare ciò su cui si fonda: nessuno sa con esattezza che cosa fa di un ebreo un ebreo, men che meno un “buon ebreo”. Si tratta di un’origine, una pratica, una fede, una tradizione gastronomica? L’identità ebraica è sempre al di là di ciò che se ne può dire, non si lascia mai irrigidire in una definizione univoca, che limiti le possibilità.

In altra parole: l’”ebraismo” è sempre qualcosa di più grande del “mio ebraismo”. Conserva spazio libero per una concezione diversa dalla mia, e dunque una trascendenza infinita: quella della definizione che potrebbe darne qualcun altro.

L’ebraismo garantisce dentro di sé lo spazio di Elsa e il mio, quella di un ebrea non credente e quello di un rabbino, senza che nessuna di noi possa rivendicare più legittimità dell’altra.

Tradisco dunque il mio ebraismo, se non faccio spazio per il suo. Ridurlo alla mia, o alla sua definizione, significa di fatto profanarlo.

La laicità non è estranea a tale coscienza.

Secondo me essere un rabbino laico significa questo: considerare una benedizione il fatto che la mia fede non potrà mai conquistare l’egemonia, tanto nel contesto della nazione francese, quanto in quello della tradizione ebraica. E rallegrarsi del fatto che sotto il cielo ci sia spazio abbastanza perché ognuno possa tirare un bel respiro.

Con la forza di due parole, la sorella di Elsa ha espresso meglio di quanto avrei potuto fare io tutto ciò che mi consentiva di stare accanto a loro, pregare con i sopravvissuti di una redazione “antireligiosa” e affermare che possiamo ancora una volta scegliere insieme la vita. Non le sarò mai abbastanza riconoscente».

La via è stretta. Ma sempre più priva di alternative.

«Nessuna anima è mai stata salvata dall’odio. Nessuna verità è mai stata dimostrata con la violenza. Nessuna redenzione è mai stata portata dalla guerra santa. Nessuna religione ha conquistato l’ammirazione del mondo per la sua capacità di infliggere sofferenze ai suoi nemici. Malgrado il fatto che queste cose siano state sottoscritte al loro tempo da sinceri credenti religiosi, esse sono un travestimento della fede, e finché non lo impariamo la religione resterà una delle grandi minacce alla pace nel mondo» (J. Sacks).

Delphine Horvilleur, Piccolo trattato di consolazione. Vivere con i nostri morti, Einaudi

Paolo Naso, Le religioni sono vie di pace? Falso!, Laterza

Piero Capelli  –  Paolo Naso  –  Letizia Pellegrini, Violenza e nonviolenza nella tradizione ebraico-cristiana, EDB

 

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