Religione
Le chiavi per uscire non sono mai nelle nostre mani
L’Io si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere nella sua stessa casa.
S. Freud
Quand’ero bambino mi piaceva costruirmi, con un po’ di sedie, uno spazio immaginario che rappresentava in qualche modo la mia casa, un luogo personale, dentro cui sentirmi sicuro, uno spazio mio. Suppongo che sia quello l’inizio della costruzione del proprio mondo privato. Con il tempo mi sono però anche accorto che quello spazio immaginario, il proprio mondo, il castello dentro cui sentirsi al sicuro, può diventare una trappola, da cui non si riesce più ad uscire.
Sì, si può rimanere in trappola dentro il proprio mondo di convinzioni, di rituali e di paure, proprio come nel film di Buñuel, L’angelo sterminatore (1962), nel quale un gruppo di persone dell’alta borghesia si ritrova a casa di una delle coppie del gruppo per una cena dopo un concerto.
Alla fine della cena, durante la quale avvengono cose insolite – come il passaggio di un gruppo di pecore nella casa o la scomparsa del personale di servizio – a cui però nessuno presta particolare attenzione, nonostante l’ora tarda, nessuno ritorna a casa sua. Dopo aver passato la notte in maniera accampata, il mattino successivo diventa chiaro che di fatto dalla casa non si riesce a uscire, benché la porta sia aperta. Buñuel voleva rappresentare così la chiusura di un mondo borghese bloccato e irretito dentro le sue ossessioni, destinato a morire dentro la propria mancanza di senso.
Nella liturgia di questa domenica troviamo di fatti l’immagine della tenda e quella della casa. La tenda in cui sono bloccati Abramo e Sara e la casa in cui è intrappolata Marta. Abramo e Sara sono chiusi dentro la tenda della delusione, la delusione di una promessa che non si compie, di un tempo che passa senza dare risposte.
Marta è impigliata dentro i suoi rituali, di per sé buoni, ma che la rendono distratta rispetto a quello che avviene persino nella sua stessa vita/casa.
In tutti e due i casi sarà l’ospite, l’estraneo, colui che disturba, l’inviato o l’inatteso, a tirarli fuori dal mondo in cui sono bloccati.
Nel film di Buñuel invece nessuno può neppure entrare nella casa, neanche dall’esterno si può accedere alla casa: quel mondo borghese è del tutto incapace di accogliere, non solo di uscire. E proprio per questo è destinato a morire. Per Buñuel non c’è speranza.
Sembra, verso la fine del film, che il gruppo riesca a salvarsi da solo, provando a ricominciare: ciascuno deve prendere la posizione avuta la sera precedente. Di fatto il gruppo riesce a uscire di casa, ma quella liberazione si rivelerà temporanea, perché la stessa situazione di chiusura si ripresenterà nella cattedrale al termine della celebrazione di ringraziamento!
A differenza del film di Buñuel, la Bibbia proclama invece una speranza di liberazione che però non può venire da noi, ma da un altro che viene a visitarci, in maniera imprevedibile e inaspettata.
Anche Abramo è sulla soglia, desideroso di uscire, ma incapace di farlo. Il racconto della Genesi fotografa quei momenti della vita in cui ci sembra impossibile che qualcosa avvenga: è l’ora più calda, l’ora in cui tutto sembra morto, come negli accesi pomeriggi d’estate dei nostri paesini del sud. Ma quella è anche l’ora in cui non vorresti essere disturbato, è l’ora in cui non hai le energie per affrontare la vita. Eppure è proprio in quell’ora della vita che Abramo è invitato a uscire.
L’altro, lo sconosciuto, il non invitato, il disturbatore, ha il potere di tirarmi fuori dalla tenda della mia delusione costringendomi a servirlo.
Per Abramo è l’occasione di tradurre quello che si porta nel cuore: corre come se non fosse l’ora più calda del giorno, corre come se non aspettasse altro nella vita. E trasforma quell’incontro inatteso in una festa esagerata: una quantità di farina eccessiva, pari a otto litri, e un intero vitello, ovvero una quantità di carne pari a quella che si usava per un banchetto nuziale. Solo per tre persone. È lo spreco, la festa, che dà senso alla vita.
Nella casa in cui sono rimasti intrappolati, i protagonisti del film di Buñuel ammazzano una pecora dopo l’altra per sfamare se stessi, quando nella casa non c’è più nulla.
Da Gesù, ospite, invitato, giunto forse senza avvertire, Marta si sarebbe aspettata una parola diversa, una parola di conferma, di riconoscimento. E invece è ancora una volta l’ospite, che con i suoi gesti inattesi, imprevedibili, inaccettabili, scuote Marta dal suo torpore, la libera dai rituali, persino buoni, dentro i quali è rimasta invischiata. L’ospite risveglia Marta dalla sua incapacità di scoprire la novità che è entrata persino dentro casa sua, ma di cui lei non è più capace di accorgersi.
Possiamo fare tanto bene, come Marta, e diventare persino schiavi del bene che facciamo. Marta è intrappolata dentro il suo dovere: come la casa di Buñuel, anche quella di Marta è diventata inaccessibile, persino per Dio. Marta non lo ascolta più! E, come nel film di Buñuel, anche la cattedrale può diventare un luogo dentro cui si può rimanere intrappolati.
L’ultimo fotogramma del film di Buñuel riprende un gregge di pecore che pascola, saltellando, nei pressi della chiesa in cui la gente è intrappolata: sono le vittime, le pecore mangiate, quelle che attraversavano la casa senza essere viste, eppure sono libere, sono vive, capaci di entrare e di uscire. È un’umanità certamente debole, indifesa, ma che non corre il rischio di rimanere intrappolata nelle proprie fantasie e nelle proprie paure.
A volte ritorno a giocare con le sedie e a costruirmi la mia casa, ma ho notato che da un po’ di tempo lascio sempre uno spazio, è lo spazio della speranza che Qualcuno, magari inconsapevolmente, entri e mi tiri fuori dalle mie paure.
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Testo
Gn 18,1-10 e Lc 10,38-42
Leggersi dentro
- Da chi ti sei sentito disturbato di recente?
- Hai controllato se riesci a uscire dal tuo mondo di fantasie?
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