Religione
“L’apologia dell’ebraismo? Ovunque sorga una Chiesa”: parola di Rav Lattes
I lettori conoscono la vicenda da cui prendono spunto queste riflessioni, e la conoscono grazie al puntuale articolo scritto il 5 febbraio da Francesca Mandelli. Sia chiaro: non intendo in alcun modo soffiare sul fuoco di una polemica che non si è certo conclusa – e che, credo, non si chiuderà per parecchio tempo ancora. Altresì dichiaro subito che i miei ragionamenti, le mie convinzioni/posizioni culturali e morali, non sono e non possono ovviamente essere “contrarie” alle decisioni della Consulta rabbinica che della halachà, la tradizione normativa religiosa, è la sola, unica, riconosciuta depositaria. Si può semmai discutere se l’Unione delle Comunità ebraiche italiane (UCEI) debba essere o meno, e in che misura, considerata la rappresentanza laica e politica dell’intero mondo ebraico e di conseguenza essere o meno vincolata in maniera ferrea alle decisioni halachiche. Ma non è neppure di questo che intendo scrivere.
Mi interessa invece “dimostrare” quanto la visione della norma – delle norme più in generale – non sia mai stata e mi piacerebbe continuasse a non essere immarcescibile. Lo faccio riprendendo in mano un libriccino prezioso scritto da rav Dante Lattes zt”l nel 1923 e ripubblicato recentemente dalle Edizioni La Zisa: Apologia dell’ebraismo, prefazione di rav Giuseppe Laras zt”l con una nota di Claudio Vercelli. Intanto, molto in sintesi, chi è Dante Lattes (1876-1965): rappresentante sommo dell’ebraismo italiano, scrittore, giornalista, traduttore, educatore, rabbino. Per venire, con le parole di Vercelli, a ciò che ci riguarda oggi, Lattes è una figura che «sfugge al binomio dilemmatico tra ortodossia e assimilazione, guardando oltre questo orizzonte, da lui altrimenti considerato come asfittico». Insomma, il rav era convinto che l’ebraismo avesse senza alcuna ombra di dubbio qualcosa da dire e che per farlo non dovesse ripiegarsi nella separatezza, auto derubricandosi così a narrazione fine a sé, anacronismo del passato. Al contrario si poneva il profondo dilemma di come avrebbe potuto parlare ai contemporanei, essendo questione che partiva dagli ebrei ma che si rivolgeva a quanti non erano tali.
Sosteneva rav Lattes: «L’apologia dell’ebraismo è scritta ovunque sorga un Tempio o una Chiesa; sopra ogni altare cristiano, nelle preci alzate a Dio Padre, fra lo splendore dell’arte che glorifica gli eroi d’Israele, i suoi padri, i suoi profeti, i suoi apostoli, i suoi martiri; è impressa nella severità orientale delle moschee, in cui si adora l’Iddio universale, immateriale e morale della Bibbia; in tutta la civiltà che non può ignorare questo sole che gli ebrei gettarono nei cieli degli uomini». Ancora: «L’ebraismo volle liberare la coscienza religiosa da qualsiasi forma tangibile e limitata per sollevarla, senza forme intermedie, direttamente e immediatamente, fino all’astratto e puro ideale che non ha figura (…) ancora questo sforzo di astrazione, che l’ebraismo come una drammatica lotta compì alcuni secoli fa, è arduo per gli uomini. L’aspirazione dell’ebraismo a diffondere fra gli uomini la pura idea dell’Eterno uno, fuori d’ogni rappresentazione materiale non è stata ancora effettuata (…) Per l’ebraismo farisaico, la salvezza non viene dall’appartenere ad una data chiesa né dall’ammettere certi dogmi, né dal compiere certe formule religiose o dall’ubbidire a certe regole o a certi ordinamenti, né dall’affidarsi a dati intermediari obbligatori. Ognuno può essere salvato per lo spirito puro e per l’atto morale».
Parole “vecchie” di un secolo, atteggiamenti che hanno innervato l’importanza della presenza culturale ebraica nel Risorgimento e nella migliore storia italiana del Novecento.
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