Religione
La sindrome di Medea
E pur avendo molte vie di morte, non so, mie care, a quale porrò mano per prima: se darò alle fiamme la mia dimora nuziale, o pianterò loro nel fegato una spada affilata, penetrando silenziosamente nella loro stanza da letto. C’è solo un pericolo: se verrò sorpresa mentre penetro nella casa a compiere il mio piano, sarò uccisa e derisa dai miei nemici. Allora è meglio la via diretta, di cui sono espertissima per natura: ucciderli col veleno. Ecco, sono morti (Euripide, Medea)
I casi che hanno conosciuto la ribalta della cronaca sono due in questi ultimi tempi.
Consentono una generalizzazione?
Permettono di applicare alla chiesa cattolica italiana la diagnosi della sindrome di Medea, la madre divoratrice dei suoi figli?
C’è un istinto autodistruttivo che in questi tempi di scandali, diminuzione consistente del personale di gestione delle strutture di base, diserzione da parte dei fedeli dei riti, assale le curie di Italia?
Porre la domanda forse non è inutile.
Soprattutto quando ad essere divorati dalla madre sono due figli dalla personalità netta e vivace, capaci di prendere posizione in maniera originale e di difenderla con ragioni e passione.
Il primo caso riguarda don Giulio Mignani, 50 anni, già parroco di Bonassola e Framura, comuni nella Riviera di Levante, diocesi di La Spezia.
Lo ha comunicato lui stesso lunedì 3 ottobre 2022, con un messaggio che ha affisso sul portone della chiesa parrocchiale di Bonassola: «Buongiorno a tutti. È mio dovere comunicarvi che, a partire da oggi, sono stato sospeso “a divinis”, sono stato cioè sospeso dal mio ministero. Vuol dire che rimango prete e non sono scomunicato, però non posso più realizzare alcuna celebrazione pubblica di sacramenti e sacramentali e non posso predicare».
Il secondo caso è di questi giorni e riguarda la diocesi di Padova. Come spiega la nota ufficiale della curia che prevede anche qui una sospensione a divinis «naturale conseguenza della richiesta – presentata dallo stesso don Luca Favarin, il 13 dicembre 2022 – di essere esonerato dai compiti legati al ministero presbiterale e di avviare il procedimento di dispensa dal ministero ordinato».
Per don Giulio il problema erano le sue idee su eutanasia e omosessualità, per don Luca le sue iniziative sociali che precisa la curia «per quanto pregevoli, sono personali e non pensate, condivise né maturate insieme alla Chiesa di Padova». La scelta di don Luca, prosegue la curia, «si è, invece, indirizzata diversamente, in forma autonoma e personale, sfociando in attività imprenditoriali su cui più volte la diocesi ha chiesto informazioni, condivisione e trasparenza, proprio per poter valutare l’autorizzazione richiesta a un prete per procedere con tali attività (cfr. CDC can. 286). Una richiesta legittimata dal fatto che le azioni e le attività di un prete naturalmente coinvolgono l’intera diocesi: quando un prete, parla, agisce, attua percorsi e progetti chiunque immagina che lo faccia a nome e per conto della Chiesa. don Luca non ha accolto l’invito a far proprio lo stile diocesano, ritenendo opportuno continuare per la propria strada».
La scelta di entrambi è stata comunque quella di non tacere e hanno comunicato e argomentato le loro scelte sui social e sulla stampa.
Ad un’osservazione esterna che comprenda la chiesa come una struttura sociale queste interazioni appaiono strumentali ad una concezione di potere del tutto squilibrata (è il clericalismo contro cui si scaglia da tempo papa Francesco?).
In entrambi le situazioni al dissenso e alla diversità non viene dato spazio e i suoi portatori vengono espulsi.
L’elaborazione del conflitto che potrebbe portare ad una sua trasformazione in termini di ascolto delle reciproche ragioni per la costruzione di rapporti paritari non viene avviato.
L’esito è una legittimazione della violenza demolitrice e la negazione di possibili cambiamenti creativi e costruttivi.
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