Religione
La pedofilia resta una questione aperta nella Chiesa di Papa Francesco
«Avete letto il libro di Jason Berry?». È solo una breve battuta che una vittima di preti pedofili rivolge ai giornalisti del Boston Globe nel film Il caso Spotlight, ma è densa di significato. Jason Berry iniziò a indagare sui preti pedofili in solitaria, un quindicennio prima dei suoi colleghi di Boston, pubblicò i suoi articoli sui National Catholic Reporter, poi nel 1992 mandò alle stampe il libro Lead Us Not Into Temptation (Non indurci in tentazione). Aprì il varco al gruppo di giornalisti investigativi protagonisti della bella pellicola che ha vinto il premio Oscar come miglior film, tratta dal libro Tradimento (edito in Italia da Piemme), fu il pioniere dello svelamento degli abusi nella Chiesa d’Oltreoceano, nel 2002, e, nel 2010, nel resto del mondo. Continuò a indagare, scoprì una raccapricciante storia criminale, quella di Marcial Maciel Degollado, defunto sacerdote messicano, fondatore dei Legionari di Cristo, tossicomane, pedofilo seriale, padre di tre figli illegittimi avuti da due donne diverse e anch’essi abusati. Raccontò, sempre sul National Catholic Reporter, che Maciel era bene accolto in Vaticano e comprava il silenzio dei cardinali di Curia con «offerte» generose. Solo un cardinale le rifiutò, si chiamava Joseph Ratzinger. Eletto Papa, Benedetto XVI costrinse Maciel al ritiro e commissariò i Legionari di Cristo. Ma da cardinale prefetto della congregazione per la Dottrina della fede «non è potuto andare più in là nell’esecuzione» delle indagini che aveva avviato, ha certificato, con ammirazione per il predecessore, Papa Francesco, di ritorno dal recente viaggio in Messico. Gli fu evidentemente impedito dall’inner circle di Giovanni Paolo II. Da quell’epoca la Santa Sede ha fatto passi di giganti. Ma la pedofilia del clero, per la Chiesa di Jorge Mario Bergoglio, rimane una questione aperta.
La stessa notte degli Oscar andava in scena a Roma un altro spettacolo. Il cardinale George Pell, prefetto della potente Segreteria vaticana per l’Economia, una sorta di tesoriere della Città pontificia, iniziava le sue deposizioni in video-collegamento con la città di Ballarat davanti ad una commissione istituita dal Governo australiano per indagare gli abusi sessuali perpetrati negli anni passati sui minori nella Chiesa e nel resto della società (Royal Commission into Institutional Responses to Child Sexual Abuse). Le testimonianze si sono svolte in orario australiano, per quattro notti di seguito, in un elegante salone dell’albergo Quirinale su via Nazionale. Presenti giornalisti di tutto il mondo, quindici vittime di preti pedofili ormai adulti, giunti da Ballarat a Roma grazie al crowdfunding, seminaristi e sacerdoti dell’ambiente vaticano chiamati a dare il loro sostegno al cardinale.
Per quasi venti ore il porporato è stato chiamato a rispondere – dapprima dalla «pubblica accusa» rappresentata dalla coriacea commissaria Gail Furness, poi dagli avvocati di alcune vittime, il tutto sotto la supervisione del severo giudice Peter McClellan – dell’accusa di avere insabbiato le denunce contro svariati preti pedofili attivi quando Pell era semplice sacerdote a Ballarat, vicario episcopale per l’Educazione nella stessa diocesi (1973-1984), vescovo ausiliare di Melbourne dal 1987, dal 1996 arcivescovo della stessa e infine, dal 2001, arcivescovo di Sidney. La commissione, che non ha la giurisdizione di un tribunale e concluderà il suo lavoro con una semplice raccomandazione, si è concentrata prevalentemente sugli anni più remoti, relativi a casi caduti in prescrizione e sacerdoti non di rado deceduti. Nel corso delle audizioni al cardinale, peraltro già interrogato due volte, negli anni passati, dalla stessa commissione, non è venuto alla luce alcun fatto eclatante, in particolare nessuna responsabilità dell’epoca in cui Pell era arcivescovo. Il quadro emerso, tuttavia, è sconsolante. Il porporato ha contestato ogni corresponsabilità nelle decisioni prese dai suoi superiori di spostare da una parrocchia all’altra i preti pedofili al momento in cui in una comunità emergevano accuse o sospetti, rivendicando di non aver fatto, formalmente, nessun errore, ma ha più volte ammesso che «con la conoscenza che ho ora» avrebbe dovuto fare di più. In una dichiarazione che ha sollevato il brusio della corte australiana, poi ritrattata, ha affermato che le voci sugli abusi del prete pedofilo seriale Gerald Ridsdale, poi condannato, in una parrocchia lontana dalla sua, «erano una storia triste ma non era di grande interesse per me». In un caso, quello del fratello Edward Dowlan, ha detto che uno studente della scuola in cui questi insegnava, l’istituto gestito a Ballarat dai Christian Brothers, gli aveva confidato che il religioso aveva «un comportamento abusivo con i ragazzi», e, salvo parlarne con il cappellano, «non ho fatto niente», ha ammesso Pell. Il quale, per il resto, ha accusato di inadempienza i suoi superiori dell’epoca, il vescovo defunto di Melbourne Frank Little, il vescovo emerito di Ballarat Robert Mulkearns, nonché, nel caso del prete pedofilo seriale Peter Searson, che egli, succeduto a Little, volle rimuovere, il Vaticano, che contrastò questa decisione. Pell ha concluso le audizioni incontrando privatamente le vittime presenti a Roma, ha dichiarato alla stampa il suo impegno perché la «piaga» della pedofilia non abbia più posto in Chiesa e non si suicidi più nessuna vittima, ha assicurato il suo impegno a collaborare in futuro con i sopravvissuti. Ma quello di Ballarat, ha detto il porporato, era «uno straordinario mondo di crimini e insabbiamenti», ed egli, pur chiamandosi fuori da responsabilità dirette, ha fatto troppo poco perché non lo fosse. La stampa australiana ironizza. Su Business Insider Australia, Simon Thomsen ha scritto: «Mentre procedeva negli interrogatori, si aveva la sensazione che se la commissione gli avesse chiesto se aveva già trovato Gesù egli avrebbe dato la risposta di Forrest Gump: Dovevo cercarlo? Non lo sapevo, Signore».
George Pell è un personaggio non facile da decrittare. E’ stato tra i grandi elettori di Jorge Mario Bergoglio al Conclave del 2013. Ha avuto a spiegare, pubblicamente, che i cardinali preoccupati dagli scandali economici emersi negli anni precedenti in Vaticano, tutti non italiani (il tedesco Joachim Meisner, gli americani Francis George e George Mahoney, lo spagnolo Antonio Maria Rouco Varela), sapevano che l’arcivescovo di Buenos Aires «avrebbe sostenuto» una riforma delle strutture amministrative della Santa Sede. Francesco lo ha scelto tra i nove cardinali dei cinque continenti che lo coadiuvano nella riforma della Curia romana. Gli ha affidato il super-dicastero economico. Pell ha avuto parole abrasive verso l’imbarazzante vecchia guardia, affermando che il Vaticano deve diventare «modello di management finanziario anziché occasionale causa di scandali», e rivendicato lo spoils system a sfavore degli italiani, nei primi mesi del pontificato, spiegando, sarcastico, che «non siamo il Vicariato di Roma, ma la Chiesa universale». Ha portato con sé a Roma Danny Casey, membro dell’Opus dei, business manager dell’arcidiocesi di Sidney, responsabile operativo della Giornata mondiale della gioventù (Gmg) del 2008. Nella potente posizione di prefetto dell’Economia – «zar», lo hanno soprannominato i mass media statunitensi, «giocatore di rugby», ha ricordato il Papa – si è fatto molti nemici. Come appare evidente, non da ultimo, dalla fuga di documenti riservati confluiti nei due bestseller di Gianluigi Nuzzi, Via Crucis, e Emiliano Fittipaldi, Avarizia, usciti lo scorso autunno, che indicano proprio lui come bersaglio di molti malumori vaticani. Lo aveva forse previsto quando, ospite del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, la scorsa estate, aveva preconizzato che «la prossima ondata di attacchi sulla Chiesa potrebbe arrivare per irregolarità finanziarie».
Nel corso dei mesi, però, ben prima che scoppiasse il caso Vatileaks, Papa Francesco lo ha ridimensionato, cassando la sua idea di un Vatican Asset Management (Vam) che centralizzi sotto il suo controllo tutti gli investimenti, controbilanciando i suoi poteri tanto con quelli, rinsaldati, del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, quanto con quelli, confermati, del cardinale tedesco Reinhard Marx, alla testa del Consiglio per l’Economia, organismo di indirizzo nell’organigramma finanziario dello Stato pontificio. Collaboratore stretto di Francesco, George Pell, conservatore sicuro, ha cionondimeno criticato apertamente il Papa in due occasioni-chiave, l’enciclica ecologica Laudato si’ («La Chiesa non ha una particolare expertise nella scienza», ha detto in un colloquio con il Financial Times dello scorso luglio, «la Chiesa non ha il mandato del Signore di pronunciarsi su questioni scientifiche»), e il Sinodo sulla famiglia, a ottobre scorso, quando fu tra i capofila della fronda alle posizioni aperturiste del fronte bergogliano, firmando assieme ad atri cardinali una lettera che paventava il rischio di un’assemblea pilotata dai progressisti. La missiva, riservata, finì sui giornali. «Sono abituato a vivere in Italia, la vita è piena di sorprese!», commentò serafico, indicando, implicitamente, a quale nazionalità bisognasse guardare per cercare l’origine della fuga di notizie. Ora ha affrontato la Royal commission. Non è volato in Australia per motivi di salute, ma non si è sottratto agli interrogatori, in video-collegamento da Roma. E, c’è da dire, riesce difficile immaginarsi un cardinale italiano affrontare con altrettanta schiettezza una situazione del genere, così come – per impraticabilità concordataria o improbabilità politica – un governo italiano creare una analoga commissione per la tutela dei minori. Ha precisato, in un’intervista a Sky News Australia successiva alla fine delle audizioni, che non si dimetterà dal ruolo alla guida della tesoreria vaticana. A giugno prossimo compirà, ad ogni modo, 75 anni, età propizia per il pensionamento.
Il Papa gli ha lasciato tutto il peso della sua testimonianza. È così passato, e questo è un bene, il principio che anche un arcivescovo, un principe della Chiesa, deve rispondere delle sue azioni, e delle sue mancanze, davanti all’opinione pubblica, nonché ai fedeli. Il Papa però, e questo è poco comprensibile, non ha ricevuto le vittime australiane dei preti pedofili in quei giorni a Roma. Le ragioni del diniego addotte dal Vaticano, che la loro richiesta di un incontro non era mai giunta, sono state contestate dagli stessi sopravvissuti. Analogamente, è poco comprensibile che il Papa non abbia incontrato le vittime di Maciel durante il viaggio in Messico.
Jorge Mario Bergoglio è stato eletto da un Conclave scioccato dalla rinuncia al Pontificato di Joseph Ratzinger, per ridare slancio e credibilità a un Vaticano scosso dagli scandali finanziari, dalle fughe di documenti riservati, e dal terremoto della pedofilia. Benedetto XVI aveva in realtà avviato, su quest’ultima questione come sulle altre, una riforma, senza però avere la forza di portarla fino in fondo. Papa Francesco, pur così diverso dal suo predecessore, ne ha rilevato il testimone. Oltre all’affondo contro Maciel, Benedetto XVI, certo incalzato dall’opinione pubblica, ha però coraggiosamente adottato un giro di vite normativa contro gli abusi sessuali del clero sui minori, ha fatto dimettere vescovi, ha incontrato gruppi di sopravvissuti in vari paesi del mondo. Francesco, nel corso dei mesi, ha proseguito e approfondito la svolta. Ha inserito nel codice penale dello Stato vaticano i delitti contro i minori, sottoponendo alla giurisdizione penale tutti i membri della Curia romana e dell’amministrazione della Santa Sede. In forza di questa innovazione normativa è stato arrestato dal Vaticano per la prima volta nella sua storia, e poi dimesso dallo stato clericale, il nunzio apostolico in Repubblica domenicana Jozef Wesolowski, morto per infarto nell’agosto del 2015 poco prima che entrasse nel vivo il processo a suo carico. Il Papa ha poi creato una commissione pontificia per la tutela dei minori, ossia per la prevenzione della pedofilia. Ha chiamato a guidarla il cardinale arcivescovo di Boston, il cappuccino Sean O’Malley, succeduto a quel cardinale Bernard Law al centro del Caso Spotlight (film, peraltro, molto apprezzato dal successore) che ancora oggi vive in una residenza vaticana. Un membro di spicco della commissione, il gesuita tedesco Hans Zollner, ha incontrato le vittime australiane nei giorni successivi alla deposizione del cardinale Pell. L’anno scorso Francesco ha approvato una fondamentale riforma proposta da questa commissione, l’introduzione, nel diritto ecclesiale, di una nuova fattispecie di reato, l’abuso di potere episcopale, affidandone i relativi procedimenti ad una sezione ad hoc presso la Congregazione per la Dottrina della fede. I vescovi inadempienti, è l’idea, dovranno dimettersi. Soprattutto, se la diagnosi del fenomeno della pedofilia tracciata da Ratzinger sembrava incerta (facendone risalire in qualche modo l’origine, in una lettera ai fedeli irlandesi, ad un rinnovamento «a volte frainteso» del Concilio Vaticano II che avrebbe promosso una «tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, a evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari»), quella di Bergoglio centra più nitidamente il nodo del problema: «Chiedo perdono – ha detto ricevendo un gruppo di vittime a inizio pontificato – per i peccati di omissione da parte dei capi della Chiesa che non hanno risposto in maniera adeguata alle denunce di abuso presentate da familiari e da coloro che sono stati vittime di abuso». Ogni abuso di sessuale, è l’analisi sottesa a questa affermazione, è un abuso di potere. E, come sottolinea il film Spotlight, e come ha notato monsignor Charles Scicluna, braccio destro di Benedetto XVI nell’indagine su padre Maciel, raccomandando a tutti i cardinali di vedere il film, «ci vuole un intero villaggio per fare crescere un bambino, e ci vuole un intero villaggio per abusare dello stesso bambino».
La vicenda della pedofilia nella Chiesa, ora, è ancora aperta. Non lo dimostrano solo i casi di abuso che continuano a emergere, negli Stati Uniti, dove un report del gran jury ha accusato di insabbiamento, negli ultimi giorni, due vescovi di Altoona-Johnstown, in Francia, dove viene accusato il vescovo di Lione Philippe Barabarin, in Cile, dove da mesi i fedeli contestano il vescovo di Osorno Juan de la Cruz Barros Madrid, o in Italia, dove il fondatore della rete L’abuso ha contato 200 casi negli ultimi dieci anni. Ma anche in Vaticano. Una richiesta che avanzano da anni le vittime dei preti pedofili è l’obbligo per i vescovi che vengono a conoscenza degli abusi di denunciarli alle autorità civili. La Santa Sede la caldeggia da anni, ma questa indicazione ancora non è stata introdotta, prescrittivamente, nel diritto canonico. Su questa ambiguità si scontrano due posizioni contrapposte. A febbraio monsignor Tony Anatrella ha tenuto una lezione, in Vaticano, ad un corso di aggiornamento per nuovi vescovi, affermando che per i vescovi questo obbligo non esiste. Per il «Vaticano», i vescovi cattolici «non sono obbligati a denunciare gli abusi del clero sui bambini», ha riassunto il Guardian. Subito contestato dal cardinale O’Malley, che in una nota a nome della commissione che presiede ha affermato che vige invece la «responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi presunti alle autorità civili». Una posizione che sembra condivisa da Papa Francesco, che, di ritorno dal viaggio in Messico, ha affermato: «Un vescovo che cambia la parrocchia a un sacerdote, quando si verifica un caso di pedofilia, è un incosciente, e la cosa migliore che possa fare è presentare la rinuncia».
Negli stessi giorni in cui O’Malley diffondeva la precisazione, la commissione ha vissuto un episodio traumatico. Dell’organismo fanno parte due vittime, l’irlandese Marie Collins, abusata a tredici anni da un prete, e l’inglese Peter Saunders, anch’egli sopravvissuto agli abusi di un sacerdote, poi fondatore nel suo paese la National Association for People Abused in Childhood. Saunders, a febbraio, è uscito dalla commissione. «È stato cacciato», dicono gli uni. «No, ha preso una pausa di riflessione per scegliere se vuole lavorare con il resto della commissione alla prevenzione della pedofilia o preferisce proseguire il suo lavoro di denuncia di singoli casi», ha ribattuto Marie Collins, che peraltro si era astenuta al momento del voto. La donna, in una nota per il National Catholic Reporter, ha anche scritto nero su bianco: «Ho completa fiducia nella commissione e nei suoi membri. Non ho la stessa fiducia in coloro il cui compito nel Vaticano è di lavorare con noi e mettere in pratica le nostre proposte quando sono approvate dal Papa. Sento fortemente che chi critica la commissione sta scegliendo il bersaglio sbagliato. Ci sono molte persone di buona volontà nella Curia ma sfortunatamente ci sono ancora coloro che, a livello di vertice, sono più preoccupati per il proprio feudo e per la minaccia rappresentata per loro dai cambiamenti che per il lavoro che la commissione sta cercando di fare per proteggere i bambini». Fuori dall’albergo Quirinale, nei giorni dell’interrogatorio al cardinale Pell, c’era anche Anthony Foster, cattolico praticante, padre di Emma e Katie. Le due bambine furono violentate dal loro parroco quando erano alle elementari. Emma è morta di overdose, Katie, divenuta alcolista, è paralizzata dopo un incidente stradale. «Questa era la mia famiglia perfetta. La Chiesa cattolica l’ha distrutta, perché non ha sorvegliato i suoi preti e ha permesso che dei bambini fossero violentati. Non ho bisogno di vedere il Papa. Io rivoglio le mie bambine. La reazione della Chiesa dovrebbe essere l’umiltà, chiederci perdono, fare tutto quello che possono per risanare la vita di tutte le vittime che ci sono. Finora abbiamo solo parole. Abbiamo bisogno di azioni concrete e di tutto il peso della Chiesa impiegato per aiutare le vittime e perché non succeda di nuovo, questo vogliamo». La moglie di Anthony, Chrissie Foster, ha scritto anni fa un libro-denuncia sulla vicenda della sua famiglia, edito in Italia da Piemme. «Così in terra», è il titolo. Non come in cielo.
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