Famiglia

La parola di Francesco al Sinodo, in ascolto di Dio

5 Ottobre 2015

Il Sinodo sulla famiglia è iniziato ieri e papa Francesco ha fatto sentire la sua voce, non solo nel discorso con cui ha avviato la seduta plenaria di lunedì, ma anche nell’omelia della messa d’apertura e, ancor prima, sabato scorso, nella meditazione proposta ai partecipanti della veglia di preghiera promossa dalla Cei a San Pietro. È probabile che ‒ assolto il compito di offrire le linee direttrici e di chiarire le finalità principali ‒ gli altri suoi eventuali interventi si mantengano collocati entro l’orizzonte liturgico, lì dove egli potrà agevolmente rivolgersi a tutti ‒ ai padri sinodali come agli osservatori di tutto il mondo, oltre che alla Chiesa cattolica tutta intera che sta col fiato sospeso ad attendere i risultati dell’assise ‒ senza dare l’impressione di “schierarsi” con nessun “partito”, così come dev’essere per chi impersona il ministero dell’unità ecclesiale.

Ma, parlando nella liturgia e dalla liturgia (a partire dai testi biblici proclamati in essa), Francesco non si manterrà semplicemente ai margini dei lavori sinodali, o neutrale riguardo ad essi: contribuirà effettivamente al loro svolgimento, potrà orientarli e ispirarli nella misura e coi modi più sinodalmente qualificati. Difatti il Sinodo ‒ come spiegava già ai tempi del Concilio Vaticano II Louis Bouyer ‒ è proprio una celebrazione eucaristica sviluppata nelle sue potenzialità. Perciò il Sinodo non è affatto un «parlamento» qualsiasi, come Francesco ha avvertito lunedì mattina. È, invece, «evento di grazia» e «spazio dello Spirito», come l’ha definito il pontefice: la preghiera liturgica ne è il fattore principale e persino principiale. Si tratterà dunque, nelle prossime settimane, di contemperare e fondere la dimensione liturgico-spirituale con quella pratico-decisionale, la coralità orante con la corresponsabilità assembleare. E l’ascolto del messaggio biblico, l’interpretazione che ne viene suggerita da chi presiede la liturgia comunitaria, non potranno essere considerati meno importanti ‒ in vista dei risultati finali ‒ del dibattito in aula o della discussione nei gruppi: ha detto ieri il papa che «senza ascoltare Dio, tutte le nostre parole saranno soltanto parole che non servono».

Mi pare si possa inquadrare in questa prospettiva l’annotazione fatta da Francesco nella prima battuta della sua omelia inaugurale: «Le letture bibliche sembrano scelte appositamente». In realtà i brani scritturistici della celebrazione di domenica scorsa erano quelli che ricorrono ciclicamente ogni tre anni secondo il calendario liturgico in vigore ormai dagli anni Settanta. Semmai si potrebbe dire che la data d’inizio del Sinodo sia stata fatta coincidere appositamente con la XXVII domenica del tempo ordinario, forte dei brani biblici che giustamente il Papa ha inteso come provvidenzialmente adatti al tema della famiglia: in particolare la prima lettura (Genesi 2,18-24), che narra la creazione di Eva dalla costola di Adamo, e la pagina evangelica (Marco 10,2-16), che riferisce del confronto tra i farisei e il Maestro di Nazaret sulla questione del “divorzio”. E davvero da questi brani scaturisce un insegnamento che non dovrà essere sottovalutato dai padri sinodali: l’unione dell’uomo e della donna, il loro rapporto coniugale, che secondo la tradizione credente della Chiesa sta alla base della realtà familiare, è questione non meramente orizzontale, che si giochi esclusivamente tra l’uomo e la donna, giacché è innestata da un piano verticale, che coinvolge Dio. Lo stare insieme sponsale e ciò che ne deriva non dipende solo dai due coniugi: c’entra anche e soprattutto Dio.

Per questo Gesù, rispondendo ai farisei, che gli chiedono se sia “lecito” ripudiare ‒ del resto secondo le leggi mosaiche e una plurisecolare consuetudine ‒ la moglie o il marito, lascia intuire che occorre oltrepassare il piano giuridico e aprirsi a quello spirituale e, anzi, mistico: risalire al principio, al fondamento, all’azione di Dio stesso, al suo intrattenersi con Adamo nello spazio santo del torpore estatico, per rifinirne il profilo iconico al fine di renderlo a Lui somigliante ‒ in senso relazionale ‒ il più possibile (lo aveva già reso a Sé somigliante dotandolo di autorità, della capacità cioè di dare il nome a tutte le altre creature; ma poi ‒ dato che Adamo restava nella tristezza della solitudine ‒ lo dota anche della capacità di sperimentare la comunione e di vivere l’amore, ponendogli accanto Eva). Attingendo al risvolto spirituale della questione si potrà vincere la «durezza dei cuori» che Gesù rinfacciava ai suoi interlocutori e che Francesco ha stigmatizzato come un mortale «impietrimento».

Così come occorre superare il piano culturale per recuperare quello vocazionale: non importa accertare come s’è fatto sempre o stabilire come si potrebbe fare da ora in poi, bensì tornare consapevoli del fatto che è Dio a evocare la donna dall’intimo stesso dell’uomo e a condurla tra le sue braccia. Come anche la formula rituale del matrimonio sacramentale recita, i due non semplicemente si scelgono in forza di chissà quali convenienze, convenzioni e convinzioni, ma si accolgono l’un l’altra, accettandosi reciprocamente dalle mani di Dio.

Come, infine, occorre smarcarsi dal piano naturale della questione per riscoprire quello creaturale: la grammatica dell’esperienza coniugale non è semplicemente quella della complementarietà genitale, oggi contestata da alcune teorie gender, ma quella interpersonale, costitutivamente polare, che intreccia identità e alterità, uguaglianza e differenza, facendo sì che ogni partner possa, nella relazione sponsale, gioire del fatto di poter finalmente dialogare con chi gli è simile senza ridursi a essere un suo clone: carne dalla mia carne, osso dalle mie ossa, diceva l’uomo creato da Dio, contento di Eva. Come nell’intimo trinitario del Creatore stesso accade col rapporto agapico-spirituale tra il Padre e il Figlio suo.

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