Religione

La legge dell’Islam

8 Dicembre 2018

Quel 26 marzo 922 d.c.  il cielo di Baghdad, la splendida capitale degli Abbasidi, era oscurato da una densa coltre di sabbia che, come un manto di tristezza, sembrava avvolgerla tutta.

A qualche chilometro dalla città, su una bassa e brulla collina, era stata elevata su un’alta base di legno massiccio mentre una folla di fanatici, da dietro le transenne che erano state montate per impedire di intralciare le operazioni, aspettava impaziente.

La decisione, quella grave decisione, era stata assunta signore dei credenti, il califfo al-Muqtadir, dopo avere ascoltato il consiglio degli ulema.

Lo scandalo doveva cessare, non si poteva consentire ancora che quel sedicente profeta mettesse in discussione la “legge”, ecco il motivo per cui a nessuno era stato toccato il cuore da sentimenti di clemenza.

Quel sedicente profeta era il mistico al-Hallay, un musulmano che aveva osato varcare il muro che divideva i seguaci di Allah da quelli di Cristo e che, pur restando ancorato alla lettura del Corano, aveva preso a modello di vita Gesù di Nazareth infarcendo la sua predicazione, che l’aveva portato fino ai confini estremi dell’impero, delle parabole messaggio evangelico.

Il mistico al-Hallay, in realtà, andava oltre il Corano visto che quest’ultimo assicurava la salvezza a chi semplicemente osservava la legge, cioè osservava con puntiglio i cosiddetti cinque pilastri dell’Islam.

Il mistico, invece, predicava che quei cinque pilastri non potevano garantire la salvezza, ma bisognava riempire il proprio percorso di vita con le opere, coltivando l’amore di Dio ma, anche, l’amore degli uomini.

Non dunque l’occhio per l’occhio – secondo l’antica legge mosaica ora fatta propria dal Corano – ma, come insegnava Gesù, ora bisognava porgere l’altra guancia.

Un messaggio che suonava scandalo per chi, invece, restava prigioniero del formalismo della legge coranica.

Per il califfo e i guardiani della legge quanto predicava al-Hallay era dunque pericolosa  eresia. Il mistico non poteva che essere considerato un’apostata e come tale, secondo la legge coranica, meritava la morte.

Infatti, per gli apostati, si legge nella quinta sura, “la ricompensa è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l’ignominia che li toccherà in questa vita; nell’altra vita avranno castigo immenso”.

E questo fu il destino che, quel giorno di marzo, toccò ad un uomo mite che sulla croce confermava “Sono divenuto Colui che amo e Colui che amo è comparso in me. “ Questo parole ci fanno pensare che non solo al Hallay avesse tentato un arduo sincretismo fra due concezioni religiose nella sostanza antitetiche, ma che si fosse spinto oltre abbracciando la fede del suo amato Gesù e come lui subiva il martirio. E’ stato scritto che, nonostante i tormenti, al-Hallay affrontasse il martirio sorridendo e perdonando i suoi carnefici, forse un’esagerazione ma verosimile se si fa mente locale sulla storia e la fede di quell’uomo.

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