Religione
Kinnaur Himalaya, al di là del bene e del male
Articolo di Emanuele Confortin, tratto da Alpinismi.
Era da poco iniziato il 2003 quando giunse il momento di scegliere la mia strada. Studiavo da cinque anni alla Facoltà di ‘Lingue e civiltà orientali’ a Ca’ Foscari, indirizzo indologico. Gli esami nel piano di studi erano stati spuntati uno a uno, e quasi fossi impegnato in una sorta di trail universitario, iniziavo a ‘sentire’ la vicinanza del traguardo. Tra me e il nastro all’arrivo restava però la tesi di laurea, qualcosa di simile all’ultimo colle, senz’altro il più duro da salire, ma come avrei scoperto poi, era destinato a orientare in modo netto il proseguo della mia vita.
Optai fin dal principio per un lavoro di ricerca, rigorosamente sul campo e in una zona sufficientemente sperduta. Occupandomi di subcontinente indiano decisi per l’Himalaya, area geografica capace di suscitare in me un fascino enorme, sin da quando ero un ragazzino che sognava di fare «il giornalista, proprio come Indiana Jones». Per fortuna, dopo tre lustri le idee erano un po’ più chiare, e la scelta fu presa in modo lucido: un’indagine etnografica per sondare la religiosità dei villaggi di Kalpa, Roghi e Chitkul, nel distretto tribale del Kinnaur, in Himachal Pradesh (India), al confine con il Tibet. Presentai l’idea a ricevimento, suscitando l’approvazione del mio relatore, il quale mi affidò alle ‘cure’ di Stefano Beggiora, all’epoca dottorando, deputato al ruolo di correlatore. Malgrado la disponibilità e il prezioso aiuto ottenuto da Beggiora – esperto di sciamanismo e di culture tribali del subcontinente indiano –, nessuno in facoltà aveva mai lavorato in Kinnaur, quindi, esclusi cinque o sei libri piuttosto datati reperiti in un precedente viaggio, a New Delhi, non disponevo di alcuna informazione diretta sull’area. Sapevo poco o nulla anche in merito alla religiosità presente in Kinnaur, descritta come un ibrido di pratiche oracolari e animismo autoctono, influenzata dal buddhismo rÑyingmapa di origine tibetana.
Non avevo ancora 25 anni quando giunse il momento di partire, da solo. Inutile dirlo, ero oltremodo eccitato all’idea di vivere per un trimestre in un villaggio himalayano, a tremila metri di quota, per lavorare alla mia ricerca. Siccome i soldi erano contati al centesimo, cercai di organizzare tutto nel dettaglio, prevedendo il prevedibile. Questo escludeva il ‘saluto’ corale dei miei amici la sera prima della partenza. «Alle 4 in auto, puntuale!», si era raccomandato mio fratello vedendomi uscire “per una birra”. Rientrai tre ore prima della sveglia, colmo dell’affetto degli amici, ostinati a farmi perdere il volo. Per la cronaca riuscii a smaltire quell’affetto solo due giorni dopo il mio arrivo in terra indiana, quando presi il treno che da New Delhi Railway Station mi portò a Shimla, tappa obbligata sulla via del Kinnaur.
È impossibile riassumere in un solo pezzo tre mesi di lavoro, cui seguirono altre tre settimane nel 2005, per delle riprese video. In certi luoghi e con le condizioni giuste, l’intensità di un singolo giorno può occupare gli stessi spazi di una settimana intera. Per questo vorrei cogliere l’occasione di Alpinismi e svelare il Kinnaur un po’ alla volta, in una sorta di racconto a puntate. Il modo migliore per riuscirci, credo sia partire dagli appunti scritti nei taccuini compilati alla finestra della mia stanza, ricavata al secondo piano di una casa tradizionale, messa a disposizione da Chandra Prakash, alias CP, e dalla sua famiglia, a Kalpa. Con me, va detto sin d’ora, c’è sempre stato Rakesh Kumar, meglio noto come Kaju, impagabile interprete e amico, ritrovato in Facebook solo una dozzina d’anni dopo. Va da sé che la tentazione di tornare in Kinnaur cresce di giorno in giorno, e non sia mai che questo viaggio nel tempo diventi tra non molto un reportage in “presa diretta”, una sorta di ritorno alla mia seconda casa. Adesso però torniamo indietro, a fine estate del 2003.
Sono in Kinnaur da due mesi ormai per indagare la religiosità locale, incentrata sui grokch, gli oracoli dell’area. Poco più a est, dove il fiume Spiti si immette nel Sutlej, corre la Line of Actual Control, il confine che separa l’India dall’altopiano tibetano e dalle truppe cinesi. La terra dei grokch è isolata e scoscesa, estranea a quel turismo che da decenni riversa viaggiatori e mistici poco lontano, nei dintorni di Manali o McLeod Ganj, sede del governo tibetano in esilio.
La regione del Kinnaur costituisce la propaggine nord-orientale dell’Himachal Pradesh. Si tratta di un territorio isolato, frastagliato e montuoso che si estende su entrambe le sponde del Sutlej, fiume che, dal massiccio del Kinner Kāilash, attraversa l’intera catena himalayana fino alle pianure del Panjab. Lungo circa 80 chilometri e largo 55, il distretto del Kinnaur confina a Nord con quello di Lahaul e Spiti (Himachal Pradesh), a Est con il Tibet, a Ovest con il distretto di Shimla (Himachal Pradesh), a Sud con il Garhwal (Uttarakhand) e a Sud-Est con la regione di Manali (Himachal Pradesh). Il Kinnaur si divide in tre unità fisico-geografiche distinte: la fascia settentrionale che comprende gli ultimi 30 chilometri del corso del fiume Spiti, arrivando alla sua immissione nel Sutlej, ed estendendosi fino alla congiunzione con il fiume Ropa; la fascia meridionale, che comprende il territorio che da Karcham giunge fino al confine con il distretto di Shimla, e costituisce l’area più fertile, situata alle quote più basse. La parte centrale che comprende tutto il territorio caratterizzato dalla presenza della catena Himalyana includendo la valle del fiume Baspa, che determina la propaggine meridionale del gruppo del Kinner Kāilash e l’estremità settentrionale della catena dei Dhauladhar.
Per svolgere il mio lavoro ho scelto di iniziare dalla parte centrale del distretto. Le strutture ricettive a Kalpa sono poche e male in arnese, così alloggio nella casa di CP, una robusta abitazione di pietra e legno costruita seguendo i canoni tradizionali. Tutto attorno, le distese di alberi da frutto precipitano nella profonda valle che spacca in due il Kinnaur. Oltre i terreni ammansiti di stagione in stagione si estendono foreste e pascoli d’alta quota, sui quali troneggiano giganti come il Leo Pargial (6.791 m), la cima più alta del distretto. Tuttavia, la vetta principale è il Kinner Kāilash (6.050 m), trasposizione dell’omonimo Kāilash tibetano, considerata dimora degli dei.
Il villaggio di Kalpa è per me qualcosa di simile a un campo base. Sorge in posizione strategica su un altopiano agricolo, a 3.000 metri di quota, a monte rispetto a Rekong Peo, centro amministrativo del Kinnaur, punto di partenza e arrivo per i leggendari bus himachali. Attorno si estendono foreste di devadar, il cedro himalayano, il cui nome, di origine sanscrita, significa “legno degli dei”. La casa di CP si trova ai margini del villaggio, ed è lambita dalla Hindustan-Tibet road, antica rotta carovaniera usata in passato come collegamento tra il Tibet e le Piana gangetica. Qui, all’ombra del Kinner Kāilash, uomini e donne conducono un’esistenza legata ai cicli lunari e alle stagioni, da cui dipendono i raccolti e la pastorizia, ancora oggi attività prevalenti. Per secoli, prima della crisi indo-cinese e della chiusura dei confini, assieme ai carichi di sale, di lana e di pietre preziose, le colonne di yak in arrivo dall’altopiano tibetano trasportavano gli insegnamenti ‘bon’ e buddhisti, mentre dalla direzione opposta è giunta l’influenza hindū.
Uno dei maggiori rappresentanti della locale tradizione religiosa è Gopal Chand. Persona minuta dal fisico nerboruto, capace di trasmettere in ogni occasione un’idea di forza e decisione. La storia di Gopal è rappresentativa del sapere locale. Per conoscerla almeno in parte sono servite molte ore e la paziente mediazione di Kaju. Gopal aveva 17 anni il giorno in cui fu rapito. Era sera e si trovava fuori casa quando qualcosa prese il controllo del suo corpo, condizionandone i movimenti. Un passo alla volta, in uno stato di semi-incoscienza giunse al tempio posto su un’altura poco lontana dal centro del villaggio. Fu in questo luogo, dove ancora oggi si svolgono le pratiche religiose locali che si unì per la prima volta alla sua divinità di riferimento. L’intenso tremito diffuso a partire dalle mani si estese al resto del corpo, in un crescendo culminato nello scatto all’indietro della testa. Poi perse i sensi. Attorno a quel corpo inerme, ancora scosso dalla trance, c’erano decine di persone attonite, impotenti davanti a una manifestazione di forza con la quale nessuno avrebbe osato interferire. I segni erano chiari: si trattava di un rapimento iniziatico. Gopal era stato scelto, e per il resto della sua esistenza avrebbe servito come oracolo di Naranas, la divinità guerriera. Era diventato un grokch, anello di giunzione tra oracolo e sciamano, capace di indursi la trance e di essere posseduto, eseguendo esorcismi e divinazioni. Sono trascorsi quasi quattro decenni da quella notte e Gopal oggi è uno dei grokch più potenti della valle del fiume Sutlej, dove giorno dopo giorno la sfera umana e quella divina si alleano in uno sforzo perpetuo per evitare il caos.
Nascere e vivere nella terra dei grokch impone la conoscenza di un universo sottile, popolato da demoni, spettri ed entità sovrannaturali costantemente in agguato. Sono gli abitanti dell’aranya, la “selva”, dove le creature terrifiche rifuggono la luce del sole e il benefico fulgore del fuoco domestico, pronte ad accanirsi sulla preda ideale: l’uomo. Ecco che ciascun villaggio costituisce un microcosmo, la roccaforte in cui viene preservato il ṛta, “l’ordine stabilito”. Come una fortezza, attorno all’abitato sorgono mura invisibili composte da santuari, da bandiere di preghiera o da pietre incise con mantra protettivi, destinati a filtrare chi entra ed esce. Pochi giorni dopo il mio arrivo, la gente del posto mi impartisce alcune regole di comportamento. Imparo ad aver rispetto degli spazi selvatici, ad evitare schiamazzi, a rendere omaggio alle divinità e a muovermi con cautela in prossimità dei grossi alberi, dei massi erratici, nei campi di cremazione o alla confluenza dei ruscelli. Nelle loro sortite oltre le mura invisibili del villaggio, pastori, braccianti e viaggiatori indossano collane e amuleti protettivi preparati dal lama buddhista. L’allerta cresce con il novilunio, quando l’oscurità delle terre alte cala il sipario sulle creature in attesa, abili nell’esercizio di maya, “l’illusione”, usata per irretire le proprie vittime. «Hanno la consistenza dell’aria e si muovono come il vento», assicura Padam Chand, grokch della dea Rokshu nel villaggio di Roghi.
Si narra che nell’antichità, nel vicino regno di Rampur Bushahir ci fu una grande battaglia tra i tenebrosi asura e i luminosi sura (rispettivamente non-dèi e dèi), per stabilire a chi dovesse spettare il domino sul regno. Gli asura osservavano il sacrificio rituale, assumevano cibi non vegetariani e facevano uso di bevande intossicanti, tutti elementi considerati impuri nella tradizione classica indiana. Ciononostante erano dotati di immensi poteri, erano benevoli e praticavano la meditazione eguagliando i sura. Risulta difficile accostare l’idea di benevolenza a una classe di esseri considerati non solo non-divinità, ma anche e soprattutto contrapposti agli dèi stessi. L’attitudine ad affiancare necessariamente l’idea di male ai non-dèi è diffusa soprattutto in occidente, mentre in India questo concetto varia a seconda del contesto.
Per fare un esempio, nei testi sanscriti spesso ricorre l’idea che gli stessi dèi creino il male fra gli uomini, onde far si che dipendano da loro (e dai sacerdoti). Al contempo in India, gli asura non sono sempre causa di disgrazie, le quali in molti casi sono attribuite agli dèi. Né questi ultimi rappresentano sempre il ‘bene’ assoluto, né la distruzione, la fame e la morte sono necessariamente viste come un male. L’unico dato certo è che sura e asura sono sempre e comunque in conflitto tra loro. Si assomigliano per natura, ma differiscono come il giorno e la notte per funzione. Ecco che ogni mito parte dal presupposto che queste due classi di esseri si fronteggino in una battaglia ad armi pari, o addirittura che gli asura siano in vantaggio. L’epilogo però è sempre a favore dei sura che sconfiggono i rivali confinandoli all’inferno. Tuttavia, in qualche modo, i non dèi riemergono per sfidare nuovamente gli dèi. Probabilmente ciò è dovuto alla natura rituale del mito: ogni giorno deve essere combattuta e vinta la stessa battaglia che fa parte di un ciclico conflitto cosmico per la supremazia universale.
La somiglianza apparente di asura e sura è dovuta al fatto che entrambi condividono il potere di māyā che consente loro di assumere a piacimento qualunque forma. Così riporta il Satapatha Brāhmana: “fra le loro caratteristiche generali figurano l’opposizione alla luce e al bene, la predilezione e l’uso della māyā, illusione o inganno, una voce tonante, la capacità di assumere qualunque forma o di scomparire; in questo differiscono dai rākxasa (spiriti maligni) ma non dagli dèi, tranne per il primo elemento della serie” .
Anche nel caso del Kinnaur non si possono distinguere le diverse divinità in base alla loro benevolenza o malvagità. L’unica distinzione qualitativa che può essere operata riguarda le potenze utili all’uomo e quelle nocive. La differenza cruciale tra asura e sura è la forza, così, quando i primi diventano potenti (spesso grazie alla loro virtù, come nel caso del Kinnaur), devono ugualmente essere annientati. Talvolta però, se i gruppi che violano la classificazione non possono essere distrutti, sono riclassificati, tramutati in divinità.
Nel dedalo di luci e ombre del Kinnaur sopravvive un’antica tradizione di magia e sortilegi, eseguiti da stregoni in grado di comporre amuleti malefici o di scagliare incantesimi. L’abilità di questi ritualisti sta nel riuscire a piegare gli spiriti al proprio volere attraverso tecniche antiche, retaggio della tradizione del bon tibetano. Sia essa grave o un disturbo lieve, per la cultura kinnaura ogni malattia è causata da un’infestazione soprannaturale, la cui gravità dipende dall’entità infestante e dai tempi del contagio. La prassi terapeutica inizia con la preghiera al tempio e le oblazioni al fuoco. Poi c’è il consulto di un lama che proporrà una cura specifica. Se il male persiste si torna al tempio per interrogare la divinità di villaggio. Solo nei casi gravi, se le altre terapie falliscono, serve l’esorcismo del grokch.
L’unione tra divinità e uomo è preceduta dalla trance. Il tremito inizia con il movimento inconsulto delle mani, le dita incrociate all’altezza del diaframma. «La divinità entra da qui sopra», spiega Gopal calando una mano sulla fontanella, «progressivamente perdo il controllo del mio corpo e non sento più nulla». Il fremito si estende dagli arti al torace, infine al collo. Durante la discesa lo sguardo del grokch si fa spiritato, il viso prende un colorito paonazzo e dalla bocca escono pesanti sbuffi, alternati ad un rantolo incomprensibile. La trance cresce di intensità per dieci, forse venti secondi, poi uno scatto all’indietro del capo fa cadere il tepang, il cappello kinnaura e i capelli scendono sulla fronte. La trasfigurazione così compiuta testimonia l’avvenuta possessione. Il corpo del grokch diventa la divinità stessa, pertanto ogni azione o parola proferita rispecchiano la volontà suprema. In questo momento dio e uomo si incontrano, divenendo il primo guerriero e il secondo arma. Forti di un sapere mai scritto e di un legame ereditario, si ergono a baluardo della comunità, esorcisti, divinatori e mantenitori dell’ordine cosmico al di là del quale non resta che il caos.
Durante il lavoro in Kinnaur ho avuto la possibilità di assistere a diverse sedute oracolari. Una tra tutte è avvenuta a Phulec, la festa dei fiori che dura tre giorni e si svolge ogni anno nella prima quindicina di ottobre. La celebrazione serve a festeggiare la fine del raccolto, a ringraziare per l’abbondanza e a pregare per un’altra stagione di prosperità. Oltre alle divinità del villaggio, i riti sono dedicate anche a Sāoni, la semi-dea della natura e dell’abbondanza che risiede in alta quota al di là dei pascoli, al limite dei ghiacciai. Secondo la tradizione, questa entità sovrannaturale ha l’aspetto di una zomo, monaca buddhista, e da lei dipende la fertilità dei terreni. Il momento centrale della festa arriva l’ultimo giorno, quando la divinità del villaggio possiede il grokch ed esegue il poranpagmu, termine della lingua Kanawari che significa “infilarsi l’ago”. Si tratta di una vera e propria dimostrazione di forza che la divinità esegue sia in onore di Sāoni, sia per rafforzare la fede tra gli abitanti del villaggio. Dopo essere stato posseduto, l’oracolo – in quel frangente identificato con la divinità – si conficca due grossi spilloni alle guance e al naso, togliendoli solo diverse ore più tardi, al termine del rito, e senza riportare alcuna ferita visibile al volto. Ma questa è un’altra storia.
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