Religione
In memoria di Roberto Delera, che raccontò la solitudine degli ebrei di sinistra
L’invito della Casa della Cultura era chiaro e semplice: il 22 maggio di due anni fa ci lasciava Roberto. Per ricordarlo ci vediamo e racconteremo il suo libro, L’asinello di Elisha, andato in stampa l’anno scorso, sulla solitudine degli ebrei di sinistra in Italia. Roberto, che prima di fare il giornalista ha militato in Lotta Continua, si era appassionato alle vicende e ai dilemmi del rapporto tra ebrei e sinistra.
Roberto Delera, collega di valore, amico prematuramente scomparso nel 2015. E il suo L’asinello di Elisha, che in realtà altro non è se non la tesi di laurea discussa nel 2009, allora 56enne. Alla Casa della Cultura eravamo in molti, l’altra sera, in un clima di commossa e vivace convivialità e partecipazione, a ragionare su coloro i quali, per biografia, scelte politiche e militanza si sono trovati, come ha scritto Alessandro Leogrande, all’intersezione tra due mondi che, un tempo vicini, si sono progressivamente allontanati, e pure hanno cercato di coniugare identità e appartenenze differenti. Lo spartiacque di questa storia è naturalmente la Guerra dei sei giorni, di cui a breve cade il cinquantesimo anniversario. Non a caso la narrazione si chiude con l’assassinio di Yitzhak Rabin e con la progressiva apertura, da parte dei partiti e movimenti post-comunisti italiani, nei confronti di Israele. Tutti interessanti e appassionati gli interventi – meglio sarebbe definirli intelligenti chiacchierate – di Goffredo Fofi, Luigi Manconi, David Bidussa, Carlo Verdelli, Gad Lerner, Giorgio Gomel, e Betti Guetta, che di Roberto è stata moglie ed è la mamma del loro Michele.
Come ebbi già occasione di scrivere nel febbraio 2016 su Moked, il portale dell’ebraismo italiano, è curiosa e affascinante l’idea di intitolare L’asinello di Elisha un saggio sulla solitudine degli ebrei di sinistra in Italia. Il riferimento è a un midràsh che tratta di ortodossia ed eresia. Il santo e saggio Rabbi Meir, pilastro dell’ortodossia e coautore della Mishnà, aveva scelto per maestro di teologia l’eretico Elisha ben Abuyah – detto Asher, lo straniero. Un sabato Rabbi Meir si trovava insieme al suo maestro e come al solito erano impegnati in una profonda discussione. Elisha procedeva in groppa a un asino e Rabbi Meir, non potendo cavalcare nel giorno festivo, gli camminava accanto così assorto da non accorgersi che erano giunti al confine oltre il quale, stando alle norme rabbiniche, nessun ebreo poteva avventurarsi di shabbat. Ma il grande eretico si rivolse al suo allievo ortodosso e gli disse: «Abbiamo raggiunto il confine, dobbiamo dividerci, non accompagnarmi oltre. Torna indietro!». Rabbi Meir fece dunque ritorno alla comunità ebraica, mentre l’eretico proseguiva sul suo asinello, oltre i confini del giudaismo. Una metafora più che appropriata visto l’argomento e lo svolgimento del tema.
Pubblicarla è stato un bellissimo e dolcissimo gesto di memoria e d’amore da parte di Betti, sociologa al Centro di documentazione ebraica contemporanea. In queste cento pagine c’è un pezzo di storia dell’ebraismo italiano, seppur di una fetta minoritaria, un pezzo di storia della sinistra di questo paese e anche della sinistra israeliana ed europea. Insomma c’è la nostra vita. Una vicenda che in questa ottusa e pericolosa stagione di appiattimenti “da schieramento” sarebbe veramente utile fosse conosciuta. Farebbe bene all’ebraismo più intollerante, e alla sinistra che non è più capace di affrontare le contraddizioni, di rispondere alle sfide, che non sa più indignarsi. Farebbe bene perché è un racconto attento, documentatissimo, composto, se così si può dire scientifico, che interroga le coscienze collettive e individuali. Una narrazione che non fa sconti a nessuno. Ma Roberto conosceva i sentimenti e la filogenesi, sapeva fino in fondo cos’è la cultura della differenza, e la coltivava con lucida passione e con sentimento. Come scrissero Manconi e Lerner nella prefazione, Delera aveva colto appieno la solitudine degli ebrei di sinistra, «non dissimile dalla solitudine avvertita dai militanti della sua generazione che, come lui, non hanno sbrigativamente voltato le spalle ai valori in cui avevano creduto». La lacerazione. L’essere tacciati di “tradimento” da chi per troppi lunghi anni ha tenuto chiusi occhi e cervelli (per poi, finalmente, aprirli, e non sempre del tutto) e da un ebraismo dominante che non ammette e accetta dubbi, sfaccettature, critiche alle politiche dei governi di Gerusalemme. Come un altro compianto ex militante di Lotta Continua, Alex Langer, anche Roberto sapeva parlare di ponti, li cercava, detestando i muri.
Una istantanea – delle numerose che mi piacerebbe condividere, ma che occuperebbero troppo spazio: «Il 29 aprile del 1991, accompagnato da Piero Fassino, Achille Occhetto, sul Monte Herzl pianta un ulivo, cui ne seguiranno molti altri, per dar vita a un “bosco della pace” in ricordo di Umberto Terracini e, poche ore dopo, riconosce gli errori fin lì commessi dai comunisti italiani nel giudicare il sionismo e Israele» (una svolta anticipata parecchi anni prima da Giorgio Napolitano. Ndr). Gli strappi iniziano pian piano a ricucirsi. Il mondo va avanti. E la speranza non muore. Anche per merito del lavoro di chi, come Roberto, ha imparato che in groppa all’asinello di Elisha si possono varcare i confini rimanendo saldamente ancorati alle proprie origini.
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