Medio Oriente
Il peccato di Babele
«Solo la perdita della purezza del sangue distrugge per sempre la gioia interiore, abbatte per sempre gli uomini» (A. Hitler, La mia battaglia)
Raniero La Valle, giornalista, parlamentare, uomo di 92 anni, ha richiamato tutti a considerare un aspetto del tutto ignorato nelle analisi della guerra coloniale israelo palestinese riesplosa in questi giorni.
«Nelle ricostruzioni dei 75 anni del conflitto israelo-palestinese, nessuno, neanche Guterres [segretario generale delle Nazioni Unite], ha ricordato il 2018, che invece spiega tutto. È l’anno in cui, il 19 luglio, lo Stato di Israele cambiò natura, e da Stato democratico, come era nel disegno del sionismo, è diventato per legge costituzionale uno “Stato Nazione del popolo ebraico”. Ciò spiega tutto, nel senso che se il principio fondativo che voleva congiungere democrazia ed ebraismo ammetteva l’esistenza dell’ “Altro”, fino a permettere il sogno dei “due popoli in due Stati”, il trapasso allo Stato Nazione del popolo ebreo riservava solo a questo il diritto all’autodeterminazione, cioè i diritti politici, e rendeva incompatibile l’esistenza di un secondo popolo; di qui i 700.000 coloni irradiati in 279 insediamenti oggi presenti nel Territori occupati abitati da 3 milioni di palestinesi».
La Valle identifica nel 2018 una tragedia con implicazioni religiose profonde in grado di mutare l’anima stessa dell’ebraismo per volgerlo in perversione: «È la tragedia dell’ebraismo come religione. Dell’ebraismo come comunità religiosa, come fede, come patrimonio, come tradizione. Il rischio che sta subendo oggi l’ebraismo è la sua identificazione assoluta con lo Stato d’Israele, la qualcosa fa sì che qualsiasi giudizio che si dia sullo Stato d’Israele, buono o cattivo, e in questo momento è in maggior parte un giudizio severo e di critica, sia come sia, questo giudizio s’infrange e si estende all’ebraismo stesso. E questo non per un abuso degli osservatori esterni, ma perché questa è la stessa identità che ha rivendicato a sé lo Stato d’Israele».
Disarmare le religioni è oggi ineludibile.
Lo è per Hamas nella sua lettura tribale dell’islamismo e anche in quella ideologizzazione nazionalista dell’ortodossia cristiana che fornisce un armamentario ideologico al conflitto russo ucraino.
Un peccato raccontato nella Bibbia con il mito di Babele: la ricerca di una salvezza chiudendosi tra simili: «vivere in una pianura con un’unica lingua e uniche parole» (Genesi 11,1), costruendo una città-torre «per non disperdersi sulla superficie della terra» (11,4).
«La costruzione degli imperi è l’atto ultimo di gruppi umani che perdono biodiversità, che si appiattiscono su un unico linguaggio, dove la lingua e il pensiero si impoveriscono, diventano un “uno” non dopo il molteplice ma prima, un’unità che nega la diversità, Il “peccato” di Babele fu quello di pensare che la salvezza si trovasse nella creazione di alte mura, nel dar vita ad una comunità cum-moenia (mura comuni) che smarrisce il cum-munus (doni reciproci). La nostra storia è sempre stata un alternarsi e un intersecarsi di città-mura e di città-doni, ma quando le mura hanno ucciso i doni non sono stati giorni felici per la civiltà» (Luigino Bruni).
Il grande messaggio di Babele è l’invito alle comunità religiose di tutti i tempi a non regredire per chiudersi in mura custodi di non-diversità.
A vincere la tentazione dell’idolatria del comunitarismo in cui ci si riconosce solo tra uguali e non si coltiva la benedizione della contaminazione e dell’incontro.
Gli abitanti di Babele cercano di crescere “in altezza” e si negano alla sorpresa di spazi nuovi.
Proteggersi dall’ignoto e dallo sconosciuto e obbedire alla paura è non conoscere la generatività e la fecondità del rischio e dell’avventura. Evitando la responsabilità della libertà per farne merce di scambio con la sicurezza.
«Il confine definisce un’identità e non può prescindere dalla figura dell’ospitalità. Se l’ospitalità senza identità è caos, l’identità senza ospitalità è morte» (M. Recalcati).
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