Religione
Gesù e Pilato: il potere al cospetto della verità di Dio
Nel Getsemani Gesù si avviò con tutti i suoi discepoli dopo aver consumato la cena di Pasqua. Il nome Getsemani significa “torchio per l’olio, frantoio” ed è un podere situato sul Monte degli Ulivi.
Gesù cadde a terra, si prostrò con il viso sul suolo e piegò le ginocchia, così raccontano i Vangeli. La preghiera di adorazione è rivolta al Padre e si compie con un atto di estrema sottomissione- faccia a terra- che rappresenta il più radicale abbandono a Dio. Non a caso- ricorda Ratzinger – (in Gesù di Nazareth Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Resurrezione, Libreria Editrice Vaticana pg.173)– nella liturgia del Venerdì Santo e nell’iniziazione dell’ordinazione sacerdotale, il gesto di cadere al suolo faccia a terra è ripetuto, per ricordare l’affidamento dell’orante nelle mani del Padre.
Si dovevano compiere le Scritture: come il Giusto sofferente nei Salmi rabbrividiva ed aveva paura, allo stesso modo Gesù provava angoscia.
“L’anima mia– disse- è estremamente triste fino alla morte”(Matteo,26,38).
Il Getsemani, l’innocente torchio per l’olio, diventò così il luogo della tenebra, dove si scatenavano i terrori , le tentazioni, i sonni colpevoli, l’abbandono, il tradimento, la spada, rischiando di travolgere lo Spirito del Figlio di Dio. Non ignorava nemmeno un’ombra del suo futuro: sapeva che sarebbe stato processato, flagellato, condannato sulla Croce.
Se il chicco di grano non cade sul terreno e non muore, rimarrà solo; ma se muore dà molti frutti. Doveva perciò rinunciare a sé stesso, salire sulla Croce ed entrare nella morte, vincerla e risorgere in una spiga o in una moltitudine di spighe, mostrando che l’antichissimo ciclo della metamorfosi si compiva, con angoscia sovraumana, anche nel Figlio di Dio (Pietro Citati, “I Vangeli”, Mondadori Editore pagina 130).
Pur essendo Figlio di Dio, Gesù soffoca nella paura. Emerge la sua natura umana ed avverte l’angoscia primordiale della creatura di fronte alla vicinanza della morte: egli è Colui che è la vita stessa, ma ha davanti l’abisso, il potere della distruzione del male, di ciò che si oppone a Dio. Vive il dramma di sopportare il peccato commesso brutalmente dai suoi carnefici, dal potere della menzogna e della superbia.
Gesù era solo e cercò l’aiuto dei discepoli, affinchè vegliassero con lui. Ma cedettero al sonno, anche i suoi prediletti Pietro, Giovanni e Giacomo.
I vangeli ci ricordano che grondava sudore mischiato a sangue e l’uomo che era in lui invocò, tremante, l’aiuto del Padre. “Padre allontana da me questo calice”.
Dio non vede e non sente suo Figlio, non esaudisce la sua preghiera: ed è l’unica volta; nessuna parola scese dall’alto, il cielo era muto e si aprì l’abisso tra il Padre ed il suo Figlio: i grumi di sudore cadevano al suolo come sangue.
L’umano ed il divino si lacerano e si separano in Gesù: i due piani si sconnettono in un lago di sofferenza umana, dove tutto si confonde ed il divino sfugge, si nasconde, cade e non rialza l’uomo, condannato alla sua inesorabile solitudine.
Ratzinger ci ricorda che Gesù si rivolge al Padre con l’appellativo Abbà che appartiene al linguaggio dei bambini ed è il modo con il quale questi invocano il proprio padre. Ciò svela l’intima essenza del suo rapporto con Dio ed, anche se secondo la sensibilità ebraica è irriverente invocare il nome di Dio con questa parola familiare, Gesù ne rivoluziona il modo, perché sente che, come uomo, dovrà bere il calice dell’iniquità: applica a sé la profezia di Zaccaria: il pastore sarebbe stato percosso e le pecore disperse.
“Ma sia fatta la tua volontà”.
Gesù usava una grande immagine biblica: quella del calice della collera e del giudizio. Lo aveva offerto a tutti i suoi discepoli nella cena di Pasqua, chiedendo loro di condividere con lui la Nuova Alleanza per la remissione dei peccati. Non sopportava la Passione che Dio aveva deciso per lui; egli pensava che esistesse un’altra strada che cancellasse la colpa di Adamo, senza passare tuttavia per il calice della sua crocifissione. Ne accettò la sofferenza: il seme del grano doveva morire, la croce bagnarsi di sangue e si dovevano compiere le Scritture, per la volontà di Dio nella ferrea necessità del sotteso messaggio dei profeti.
L’attesa non dura a lungo: di notte scatta l’agguato; il giardino è circondato da uomini muniti di torce che ne eseguono l’arresto, con la complicità di Giuda.
Ebbene, senza la delazione di Giuda non sarebbe stata possibile la cattura.
Si è sostenuto che quest’ultimo non fosse un traditore e grazie alla sua complicità si sono realizzate le Scritture: dunque egli non ha tradito con dolo e coscienza, ma perché eterodeterminato da Dio: grazie al suo tradimento Gesù è stato crocifisso, rendendo possibile la liberazione dello Spirito dal suo corpo e dunque la compiutezza della Resurrezione.
Mario Pomilio, un raffinato scrittore cattolico, nel suo “Quinto Evangelio” fa dire plasticamente al suo Giuda:
“La verità è che io non fui un traditore, fui piuttosto la vittima del piano di salvezza per tutti gli uomini che per esplicarsi perfettamente doveva escludere me.”
Se era scritto che il Rabbi dovesse morire per riscattare il peccato di Adamo e restituire agli esseri umani la speranza tradita, era necessario che qualcuno si sacrificasse per avverare la profezia. Quel compito glorioso ed infame era toccato a Giuda. Il comando imposto da Gesù era: “sacrificherai l’uomo che mi riveste” (Corrado Augias,”Le ultime diciotto ore di Gesù”, Einaudi editore, pagina 92).
“Le cose umane sono ambigue, aperte al bene e al male, – dice Gustavo Zagrebelsky. – La storia di Giuda è un inestricabile intreccio di questa duplicità. Scrutando le “ragioni di Giuda” è possibile esplorare uno dei territori più inquieti del pensiero cristiano, non solo perché vi è in gioco la libertà della creatura rispetto ai disegni del creatore. Ma anche perché in Giuda si condensano, come una sterminata letteratura ci conferma, tutte le ombre del cuore umano: il suo sogno di bene e la sua capacità di male, il baratro della disperazione e la libertà della redenzione, la deformità del tradimento. Ma la domanda più radicale è su Dio: la sua misericordia è tale da poter accogliere e perdonare anche il colpevole più ripugnante?” (Gustavo Zagrebelsky “Giuda. Il tradimento fedele”, a cura di G. Caramore, Einaudi Editore).
Il tradimento fu anche di Pietro, su cui edificherà la Sua Chiesa: prima che il gallo cantasse tre volte.
Prima di essere portato innanzi a Pilato, Gesù arriva nella casa di Anna, suocero di Caifa, il sommo sacerdote in carica.
Caifa aveva provveduto, in previsione della cattura imminente, a chiamare d’urgenza presso di sé i componenti del Sinedrio, un consiglio di settantuno notabili, farisei e sadducei di evidente impronta teocratica. L’imputazione formulata contro Gesù sarebbe stata quella di concorso in banda armata contro la sicurezza dello Stato.
Secondo Enrico Cornelio, il processo a Gesù fu solo politico, né giuridico né legale: Caifa, che ebbe al contempo la funzione di Pubblico ministero e di Giudicante, voleva sopprimere Gesù, osannato dalla folla e possibile alternativa al gruppo dirigente del Sinedrio. Gesù non doveva essere giudicato per stabilire se fosse colpevole o innocente di un’accusa che non fu mai formulata preventivamente, ma il processo doveva rappresentare lo strumento per raggiungere il risultato della sua soppressione: era pericoloso ed avrebbe potuto propugnare l’alternativa al potere che controllava la vita e l’economia del Tempio (Enrico Cornelio, “Il caso Gesù, un processo politico”, La Toletta edizioni pagina 216-236).
Il processo non ha alcuna liturgia, istruttoria, capo di accusa; al momento dell’arresto i sinedristi agiscono in piena illegalità, non solo non contestano all’accusato un’imputazione, ma si ritrovano che non l’hanno neppure formulata.
Gianfranco Ravasi rammenta che Caifa e gli altri accusatori hanno violato anche il trattato sul Sinedrio della Mishnah, la grande collezione delle tradizioni rabbiche, secondo cui i processi capitali potevano essere trattati solo di giorno, nella sede ufficiale del Sinedrio: la cosiddetta aula della pietra squadrata, che si trovava presso il tempio. La seduta, invece, avvenne di notte e, dunque, era totalmente illegale.(Gianfranco Ravasi, I vangeli della Passione– il Processo pagina 65 – Famiglia cristiana editrice).
Il processo fu scatenato perché Gesù, secondo un’accusa mai formulata, aveva violato il Tempio dal quale aveva cacciato animali, commercianti, venditori di monete: avrebbe attaccato la Torah su cui si basava la vita di Israele, rivendicando un’autorità contro il Sinedrio. In secondo luogo, egli avrebbe sollevato una pretesa messianica, mediante la quale si metteva in qualche modo a fianco di Dio stesso, intaccandone l’unicità, il fondamento stesso della fede di Israele nell’unico e solo Dio.
Si arriva a questo punto, al confronto drammatico, lacerante tra Caifa e Gesù. Il sommo sacerdote per supportare un’accusa motivata e chiara( a suo dire) gli pone una domanda dirimente: “Sei tu il Cristo, figlio di Dio?”. Gesù risponde in modo semplice e chiaro: “Io lo sono”.
Anche qui si realizzano le Scritture, perché nel libro di Daniele 7,13 Gesù utilizza le parole del Salmo 110,1: “Tu lo hai detto: voi stessi dite che io lo sono”.
Ai membri del Sinedrio ed allo stesso Caifa l’attacco sembrò insopportabile, dal momento che Gesù si era elevato all’unicità di Dio.
Aveva bestemmiato, perché la regalità messianica diventava un reato politico.
Caifa si stracciò le vesti a motivo di irritazione, sdegno, rimozione alle parole di Gesù, dimostrando tutto il suo disprezzo.
Lo strappo delle vesti rappresentava il segno di lutto e di profonda emozione. Egli disse: “Non è colpevole? Che ve ne pare?”, e l’assemblea ratificò che fosse reo di morte.
Tutte le possibili mediazioni sono bruciate. Una distanza incolmabile si produce d’improvviso tra gli uomini del sinedrio e chi sta loro di fronte. Un autentico abisso, che rende inimmaginabile continuare l’inquisizione, non c’è bisogno di alcun altra testimonianza. Gesù aveva infastidito e irritato gli aristocratici del Sinedrio, quando con enfasi aveva affermato: “Vedrete il figlio dell’uomo sedere alla destra della potenza e venire sulle nubi del cielo”.
In questo modo si realizzava la profezia delle scritture tratta dal capitolo 7 del libro di Daniele, che aveva preconizzato un figlio dell’uomo che veniva dalle nubi del cielo.
Gesù fu portato in catene innanzi a Pilato nella sua residenza. I sacerdoti ormai lo giudicavano un grave pericolo, tuttavia alcun fatto di sangue si poteva addebitare ed ascrivergli: l’unica colpa praticabile per i persecutori era quella di incriminarlo per un comportamento che ledeva la maestà del popolo romano e la sua sovranità sulla Giudea. Fu detto a Pilato che Gesù sobillava il popolo e impediva di versare i tributi a Cesare. Gli fu anche riferito che turbava l’ordine pubblico, non aveva timore di Dio e si proclamava Cristo Re.
Dunque, il delitto che aveva compiuto Gesù era classificato, secondo il diritto romano, come crimen maiestatis, passibile a Roma della pena di morte.
Tutto si concludeva in quel momento: due uomini erano di fronte, l’uno in catene, l’altro nell’incontrastata pienezza del suo potere. Nessuno dei due rappresentava solo se stesso; Pilato configurava l’imperatore padrone del mondo. Gesù, nel nome del Padre suo, era portatore di una certezza solitaria, quella di essere il Re di un altro mondo e di professare la verità del cielo.
Disse Pilato: “Cosa tu hai fatto?”
Più che disprezzo verso Gesù, vi era nelle parole di Pilato una presa di distanza totale rispetto all’ambiente e alla religione del paese che governava. Era una prima rivendicazione di estraneità.
Pilato pone un’altra domanda: “Dunque tu sei re?”
Gesù risponde: “Tu lo dici, io sono re. Per questo io sono nato e per questo io sono venuto al mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. La mia regalità non è di questo mondo”.
Questa confessione di Gesù mette Pilato in difficoltà, perché il Cristo sostiene un’altra regalità. Infatti il regno di Gesù non ha alcun potere militare, non dispone di alcuna legione. Mentre viene umiliato dal potere mondano, è maestoso nel regno dei cieli che non ha la forza delle armi. Gesù distingue innanzi a Pilato ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Non contesta il suo ruolo, non si ribella a Pilato, non è uno zelota in rivolta, non ha un obiettivo politico immediato da raggiungere, non ne ha mai avuti. I Romani per lui non sono oppressori.
Il tema che, invece, egli pone è quello drammatico della verità, aletheia.
Il regno di Gesù è solo quello della verità, che non può confondersi con quello di Cesare, che si rattrappisce e si chiude solo con il potere. Egli è il testimone della verità, di quel regno che tiene come assoluta la legge dell’amore, il prossimo tuo come te stesso, senza che sia imposta.
Pilato si rende conto che non ha di fronte un esaltato, ma una figura che si staccava nettamente dallo sfondo inquieto e febbrile della religiosità giudaica, parlando un nuovo linguaggio, antitetico al vecchio testamento.
Gesù al cospetto di Pilato parla poco, si immerge in lunghi silenzi e, quando il governatore lo incalza con domande, tace, con un volto pieno di sofferenza misto a malinconia e tristezza.
Ma Pilato tuona: “Ma che cosa è la verità?”
È il momento più alto del confronto. Per Nietzsche con questa affermazione si vede il nobile sarcasmo di un romano dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola verità. Ma Pilato prende molto sul serio Gesù, anche se non comprende l’origine ed il fondamento del suo pensiero. La sua domanda non è distruttiva come vorrebbe Nietzsche, è genealogica. Non vi sono risposte( Aldo Schiavone, “Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria”, Einaudi passim da pagina 20 a pagina 131).
Pilato si accorge che le parole di Anna e Caifa non corrispondono al vero: Gesù non è un agitatore di popolo, né un sovversivo, né un sedizioso.
Di fronte alla condotta del prigioniero rimane spiazzato, ne ha una sorpresa, è ammaliato; le domande di Pilato trasudano la sua ammirazione, la sua meraviglia per Gesù.
Capì il Governatore profondamente che le accuse dei sinedristi erano inconsistenti.
Sua moglie Procla aveva sognato Gesù e gli riferì di “non toccare quell’uomo giusto”.
Questa rivelazione celeste gli fece comprendere che Gesù fosse innocente e per tre volte replicò ai Giudei :“Non ho trovato nulla che in lui meriti la morte”.
Poteva Gesù essere liberato? Pilato lo fece flagellare e lasciò che fosse coperto di insulti. Lo fece chiamare e lo presentò alla folla esclamando: Ecce homo. La folla gridò per la sua crocifissione.
Si rese conto che i giudei ne volessero la morte : “Se liberi costui, non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re, si oppone a Cesare”, dissero quelli del Sinedrio.
Nel rispetto dell’usanza ebraica di liberare un prigioniero nel giorno di Pasqua (e vi era il sedizioso Barabba), la folla optò per la crocefissione di Cristo.
Pilato era convinto della sua innocenza ed i Vangeli ricordano che si fece portare una bacinella per lavarsi le mani, gesto profondo ed altamente simbolico per dimostrare e non essere additato come colpevole del sangue di un innocente. Infatti in Giudea ci si lavava le mani se ci si imbatteva in un cadavere per significare di non essere colpevole della sua uccisione (cfr. Deut., XXI, 6). L’atto di Pilato voleva significare ai giudei: “Io sono innocente della morte di Gesù” (v. 24). E loro capirono benissimo e risposero: “Che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (v. 25), cioè essi presero su di sé come popolo la responsabilità della condanna a morte di Gesù.
Gli ebrei non sono colpevoli di deicidio, come ha ben detto il Concilio Vaticano II con il documento Nostra Aetate. È un’accusa infamante ed inutile, anche perché le fonti parlano impropriamente di popolo: era un normale assembramento, seppur vociante.
Il momento più focale nella storia dell’uomo e la domanda ( metafisica) che Pilato pone a Gesù: “Di dove sei?”
Capi che Gesù non era stoicamente superiore a quanto poteva capitargli; che la sua non era indifferenza di fronte alla fine, ma che vedeva con lucida passione la morte sulla croce, come unico esito possibile della propria predicazione, l’ultimo cruciale atto della sua esistenza terrena e non voleva a nessun prezzo sottrarvisi: era il tassello mancante della sua missione, il punto estremo dove riunire ancora una volta predicazione e vita(Schiavone, ibidem).
Ma il mistero del compimento delle Scritture reca il fascino tragico, pieno di pathos che fa commuovere ed immalinconire tutti: credenti ,laici, atei, agnostici:
“Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.”
(Isaia 53,6-7).
La Verità (sua) splende ed è più forte del potere.
Biagio Riccio
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