Religione

Due silenzi, due Papi

30 Luglio 2016

È stato il silenzio di Francesco a fare notizia ad Auschwitz: la contemplazione dell’orrore della storia, seduto, da solo, su una sedia di legno davanti al lager, la preghiera custodita nel cuore, le parole pensate e scambiate con Dio nella profondità della propria anima. Un silenzio che parla a voce alta e che schiera la Chiesa cattolica, nettamente, dalla parte degli sconfitti, delle vittime della forza arrogante della guerra. Anche oggi.

Settant’anni fa un altro silenzio di fronte a quell’orrore, di un altro Papa, Pio XII, aveva avuto l’effetto opposto, di distanza inaccettabile da un genocidio su cui, mentre avveniva, la guida morale del mondo cristiano non diceva una parola.
E non nei mesi della guerra, dell’occupazione nazista dell’Europa, quando la reazione di Hitler contro una Chiesa dissidente rispetto allo sterminio avrebbe provocato reazioni più distruttive, come in Olanda, dopo la condanna dei vescovi cattolici e la rappresaglia feroce che si era abbattuta anche contro i cristiani.

Anni prima, nel 1933, quando il nazismo nascente stava già dimostrando la sua vera natura, Edith Stein, la filosofa ebrea convertita al cattolicesimo, aveva scritto al Papa (Pio XI) e aveva osato richiamare il capo della Chiesa alla responsabilità del “silenzio degli innocenti” di fronte alla barbarie della negazione dell’umanità che si stava prefigurando in Germania. Con la Germania hitleriana il Vaticano avrebbe sottoscritto un Concordato, tre mesi dopo la lettera di Edith Stein, che sarebbe morta ad Auschwitz, da suora carmelitana, nel 1942, accompagnata dal silenzio della sua Chiesa.

Papa Francesco è entrato ad Auschwitz a piedi, non come il capo della Chiesa ma come un pellegrino, come i milioni di deportati che sono stati sterminati lì, ha baciato il palo di una forca come una croce, ma non ha inalberato una croce nel luogo del martirio dei “fratelli maggiori” ebrei, ha pregato in silenzio nella cella di padre Kolbe, il prete che si offrì di morire al posto di un padre di famiglia. Senza fare discorsi ufficiali, senza parole di circostanza.

Il silenzio è rispetto di fronte al martirio soltanto dopo che il sacrificio si è consumato, non mentre accade e lo si può impedire. E mentre il martirio si compie non bisogna sbagliare le parole, se si vuole farne armi di pace.

Come sta facendo Francesco, che di fronte all’attacco terrorista di oggi spiega, tenacemente, che non si tratta di una guerra di religione, ma di una guerra umana, troppo umana, fatta di interessi, di soldi, di controllo dei popoli e delle risorse del pianeta. Una guerra politica, che si vince o si perde se saranno le armi della politica a disinnescare la violenza, a chiarirne le ragioni reali, a conquistare autenticamente il consenso diffuso capace di isolare i violenti e di dare forza all’accoglienza e alla democrazia. Smettendola di sfruttare gli ultimi del pianeta e facendoli diventare finalmente i primi nella scala delle priorità a cui la politica deve dare risposte.

Tenendo lontano il fanatismo, l’intolleranza, la rabbia e l’orgoglio di chi fa prevalere la paura di perdere le proprie sicurezze sull’intelligenza capace di mettere in campo soluzioni efficaci ai bisogni di tutti, rispettose di tutti. Perché l’umanità o si percepisce come una famiglia unica, solidale e rigorosa con se stessa, o si trasforma in una babele feroce di bande rivali: homo homini lupus.

Parole e silenzi non si esprimono a caso, e in tempi e luoghi diversi significano cose diverse. L’umanità ha l’intelligenza del discernimento, se vuole. Anche senza aspettare le parole o i silenzi del potere.

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