Religione

Don Milani, il papa e la lotta di classe

1 Luglio 2017

Nel marzo del 1960, durante la traslazione della tomba di Alessandro Manzoni, accadde un mezzo miracolo: la tomba apparve apparve stranamente illuminata, anzi sprigionante luce. Fu un mezzo miracolo, e non un miracolo completo, perché qualcuno ebbe il buon senso di far notare che si trattava del riflesso di un raggio solare sulla teca di cristallo, e qualche altro ebbe il buon senso di ascoltarlo. Ciò non impedì, com’è naturale in Italia, che da più parti si invocasse la beatificazione dello scrittore. Chiedendo all’amico giornalista Giorgio Pecorini di procurargli una foto del corpo mummificato dello scrittore, che incuriosiva i ragazzi di Barbiana, don Lorenzo Milani ragiona divertito sulle conseguenze della santificazione: “Hai mai pensato che immenso sfalsamento avverrebbe a tutto il romanzo se i gesuiti facessero la follia di santificarne l’autore? Nel giro di pochi decenni i ragazzi costretti fin dall’infanzia a dire le preghierine al Santo Romanziere protettore delle scuole lo vedrebbero sempre in aureola anche quando descrive la peste e non gli crederebbero più una parola. Tragico destino di chi vien dalla Chiesa benedetto e consacrato. Motivo profondo per cui bisogna sempre parlare sboccatamente e ineducatamente e farsi odiare quanto occorre per essere almeno presi sul serio” (1).
Dopo la visita di papa Francesco a Barbiana pare che lo stesso don Milani abbia rischiato questo tragico destino. Con un certo sollievo abbiamo letto le parole del cardinale di Firenze, che dopo la visita ha dichiarato che non ci sarà alcuna beatificazione, e che Barbiana non diventerà un santuario. La visita del papa ha un altro significato. Papa Francesco ha riconosciuto che il modo in cui don Milani è stato prete è stato un buon modo di fare il prete, di realizzare la missione sacerdotale, di mettere in pratica il Vangelo. E’ un riconoscimento importante, che lo stesso don Milani aveva chiesto apertamente al suo vescovo, senza successo. Voleva che la Chiesa prendesse atto che la sua vicenda a Barbiana non era un fatto privato, l’avventura di un personaggio stravagante, ma una via del cattolicesimo, una possibilità per la Chiesa. Dopo cinquant’anni papa Francesco riconosce che è così. O quasi. Lo fa arrivando a Barbiana in elicottero, unico tra coloro che sono giunti a Barbiana dal ’54 in poi. A Barbiana si saliva e si sale a piedi; al massimo in automobile. Elicotteri mai. Si dirà: una polemica sterile, che non considera la sostanza. Ma qui si tratta proprio della sostanza.
Don Milani è stato tre cose: un prete, un educatore, uno scrittore. Come educatore ha avuto la sorte migliore. La Lettera a una professoressa dopo cinquant’anni è ancora un testo infinitamente più vivo di qualsiasi altro tomo di pedagogia scritto in quegli anni. E’ stato frainteso e lo sarà ancora a lungo, ci sarà sempre qualche Paola Mastrocola ad attribuire al Priore catastrofi grammaticali o pedagogiche, ma chiunque voglia capire, capisce: e capisce cose importanti ieri, non meno importanti oggi. Come scrittore don Milani è ancora da scoprire, e la pubblicazione di tutte le opere nei Meridiani Mondadori rappresenta un’occasione importante. A ragione Alberto Melloni scrive, introducendo i due volumi, che la sua scrittura “deve essere trattata con la cura e i crismi riservati a quelle grandi opere – verrebbe da pensare al De Vulgari eloquentia dantesco o al Manzoni stesso – che si sono poste il ‘problema’ della lingua mentre ne costruivano una e la consegnavano a un destinatario preciso, dotata di codici d’accesso e di filtri rigorosi” (2). Ma don Milani era, e voleva essere, soprattutto un prete. Era educatore, era scrittore, in quanto prete. Si tende a dimenticarlo, perché la scuola che faceva era laica; ma fare scuola laica era il suo modo di essere prete. Di essere prete nel modo più serio e più alto.
Pochi mesi prima di morire scrive ai suoi ragazzi: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritti tutto sul suo conto” (3). Questa è la via di Don Milani come prete. Amare Dio amando le persone. Che detta così sembra una cosa ragionevolissima, nulla di cui scandalizzarsi. A far scandalo – e a indicare una via – è quel “più” di troppo. Si ricordino le parole, per molti versi terribili, del Dottore della Chiesa San Giovanni della Croce: “l’affetto per Dio e quello per le creature sono contrari e quindi non possono essere contenuti nella stessa volontà”; e ancora: “tutte le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio. Giustamente quindi, vengono chiamati cani coloro che si vanno pascendo delle creature…” (4). Don Milani sarebbe stato proprio uno di questi cani che si cibano delle briciole cadute dalla mensa di Dio, una immagine che con ogni probabilità gli sarebbe piaciuta. Di più: si direbbe che gli interessino soltanto le briciole, che esse non siano un modo per risalire alla mensa, per partecipare in qualche modo ad essa, ma che siano l’unico cibo possibile, accettabile, desiderato. Detto altrimenti: un Dio che si risolve nelle creature, una fede che diventa prassi di incontro con esse. Ma non qualsiasi creatura. Quelle creature che sono i poveri. Per don Milani essere prete – ossia avere fede, essere cristiano – significava questo: mettersi al servizio dei poveri. Trattare i poveri come Dio stesso. Una fede che si pone agli antipodi della teologia. La fede non è una questione di logos, ma di praxis. Di azione. E’ qualcosa da fare con gli altri. Per un non credente e non cristiano come me, una cosa particolarmente interessante di questo modo di concepire la fede è la possibilità di incontro con i non credenti. Se Dio non è nel logos, ma nella praxis, allora ci si può incontrare nella praxis, sia che si sia credenti (o, per dirla con don Milani, che si faccia parte della Ditta) sia che si sia atei.
Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa per non fraintendere don Milani. La praxis che realizza la fede non è un generico mettersi al servizio dei poveri, né un mettersi al servizio dei poveri educandoli. La Chiesa fa da tempo entrambe le cose. La novità di don Lorenzo consiste nel fatto che questa prassi è una prassi politica, non un’azione caritatevole. Non è il gesto benevolo con il quale il membro di una istituzione che da secoli giustifica e fonda l’oppressione dei ricchi sui poveri (come vide e denunciò già nel Settecento un altro prete a contatto con i poverissimi, Jean Meslier), ma è il gesto di rottura di un prete che insegna ai poveri che sono oppressi dai ricchi, e che devono liberarsi da questa oppressione combattendo i ricchi. Ecco le parole di don Lorenzo durante un incontro con alcuni direttori didattici: “io baso la scuola sulla lotta di classe. Io non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe. E la scuola funziona perché io faccio soltanto questo discorso”. E al direttore didattico che gli fa osservare scandalizzato che quelli sono “concetti marxisti”, risponde rivendicando il senso cristiano di quelle parole: “Vi parlo da sacerdote perché oltretutto io sono più prete di voi. Io sono prete, se ve lo dico io, si può dire” (5).
Ma si può dire davvero? E’ per confermare questo “si può dire” che don Lorenzo chiedeva un gesto al suo vescovo. Un gesto che non giunse allora, e che sembra essere giunto adesso. Ma è giunto davvero? Ascoltiamo le parole del papa. “Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole”. E più oltre: “La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità”.
No. Don Milani non era questo. Pur con le migliori intenzioni, il papa non riesce a far di meglio che far rientrare don Lorenzo nello schema caritativo. Il Priore s’è preso cura dei poveri realizzando il “volto materno e premuroso” della Chiesa. Siamo a un passo dalla santificazione-addomesticamento. Il papa vola fino a Barbiana per dire che don Milani s’è preso cura dei poveri, mentre da cinquant’anni don Milani attendeva che si dicesse che prendersi cura dei poveri in modo cristiano significa insegnar loro la lotta di classe. Si dirà che la lotta di classe è un ferro vecchio, che quelli erano altri tempi, che la società è cambiata e le classe nemmeno si sa più quali siano. Si dirà che anche i poveri oggi hanno lo smartphone. Si dirà che il comunismo è finito da un pezzo. Si dirà. Mentre l’unica cosa sensata da dire è quella denunciata da Luciano Gallino in una delle sue ultime, lucidissime opere (6): la lotta di classe c’è ancora, ma s’è rovesciata. E’ la lotta dei ricchi contro i poveri. E oggi, come ieri, si può stare da una parte o dall’altra. Oppure si può stare da una parte fingendo di stare dall’altra: ad esempio riempendosi la bocca con i poveri dopo essere scesi dal proprio elicottero personale.

(1) Lettere a Giorgio Pecorini del 15 marzo 1960, in Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, Mondadori, Milano 2017, vol. 2, p. 739.
(2) Ivi, vol. 1, p. XII.
(3) Testamento, 1.1.1966, in Lettere di Don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1988, p. 282.
(4) Giovanni della Croce, Salita del monte Carmelo, I, 6, in Opere, Edizioni OCD, Roma 2001, pp. 32-33.
(5) Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, cit., vol. 2, pp. 1165-1166.
(6) L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.

 

Nell’immagine: papa Francesco davanti alla tomba di don Milani. © Osservatore Romano.

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