Religione
Diocesi, regni dell’opacità dediti ad affari discutibili
La trasparenza nella gestione di finanze e patrimoni miliardari da parte delle diocesi italiane è ancora un miraggio. E la strada per rendere accessibili i conti delle 226 articolazioni territoriali di Santa Romana Chiesa appare lunghissima. Perché, da una verifica su oltre 200 siti web di altrettante Diocesi, emerge un quadro disarmante. Sono infatti solo tre i casi in cui sono stati resi pubblici veri e propri rendiconti annuali: quelli delle Diocesi di Padova, Trieste e Imola. Che hanno dunque raccolto l’appello, lanciato due anni fa, sull’onda del nuovo corso moralizzatore di Papa Francesco, da monsignor Antonio Neri, sottosegretario alla Congregazione del clero: «è necessario che ogni Diocesi metta a punto bilanci preventivi e consultivi», aveva detto l’alto prelato.
Sullo spinoso tema, sollecitato da Adista – agenzia specializzata in notizie sul mondo cattolico e più complessivamente sulle religioni -, si era poi espresso un anno dopo anche monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiano, assicurando che «ogni Diocesi pubblica ogni anno il suo bilancio, lo pubblica sul Bollettino diocesano, lo pubblica sul sito della Diocesi ». Le cose stanno, come abbiamo visto, diversamente. Nonostante le cifre in ballo siano impressionanti. Sul versante immobiliare, le Diocesi amministrano oltre 4 miliardi di patrimonio. Stando ai numeri elaborati dall’ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, le 226 articolazioni territoriali governate periferici hanno poi in “portafoglio” 3,9 milioni di beni storici e artistici oltre a 64.447 edifici di culto. Senza considerare le migliaia di edifici che ospitano istituti scolastici, cliniche e ospedali, strutture per anziani o alberghi.
Sotto il profilo finanziario, poi, è immaginabile sia enorme il flusso di denaro gestito dalle Diocesi. Ma una sua stima attendibile non è mai stata fatta semplicemente perché i bilanci sono, come è noto, top secret. E, sotto il paravento della segretezza, è cresciuto il numero di operazioni spericolate e discutibili, come quella, ultima in ordine di tempo, denunciata a ottobre dell’anno scorso da Le Iene sugli affari immobiliari della Diocesi di Acqui Terme. Nella storia recentissima abbiamo anche assistito a vere e proprie scalate societarie, come quella condotta due anni fa dalla Diocesi bolognese nei confronti della Faac, il colosso dei cancelli automatici. Negli ultimi anni si sono poi moltiplicati i casi di acquisizione di fondi e di investimenti in Borse di mezzo mondo. Così come di partecipazioni a sofisticate holding immobiliari e finanziarie.
Il caso più eclatante è quello di ISA Spa, società che ha sede a Trento ed è conosciuta come la “finanziaria del Vescovo”. Il suo raggio di azione spazia in una moltitudine di settori strategici: dalla finanza pura al credito, dalla speculazione immobiliare all’editoria, dall’universo dell’energia a quello delle assicurazioni, passando per le grandi opere. ISA – acronimo di Istituto di Sviluppo Atesino – costituisce non solo il sofisticato forziere della ricchissima Arcidiocesi di Trento, ma uno uno degli snodi più rilevanti della vita economica, sociale e politica della provincia autonoma.
Un capitale sociale di quasi 80 milioni di euro suddiviso tra oltre 3900 soci – tra i quali il nocciolo duro della Curia è largamente maggioritario -, ISA Spa detiene ben 44 partecipazioni, per un valore pari a poco meno di 120 milioni di euro. Che negli ultimi due esercizi hanno fruttano 9 milioni di avanzo. Quello di ISA è un dedalo di scatole societarie – dove spiccano nomi importanti come Mittel, Avvenire, Ubi Banca, Banca Intesa, Credito Valtellinese – ben congegnato per produrre profitti e al contempo utili ad esercitare peso nei gangli del potere della Santa Sede. Prova ne è il fatto che Giorgio Franceschi, amministratore delegato della finanziaria trentina, è anche vicepresidente dell’istituto centrale per il sostentamento per il clero. Un ente, quest’ultimo, che amministra poco più di 1,4 miliardi di euro e nella cui stanza dei bottoni deve sedere chi ha dimestichezza con il denaro. Quella dimestichezza che ISA, in diverse occasioni, ha dimostrato di avere. Soprattutto quando gli affari intersecavano le strade della politica.
Come nel caso di una importante cantina cooperativa (LaVis, nda), che, pur decotta, prima di dover portare i libri in tribunale, ha potuto godere, per anni, di lauti finanziamenti dagli amministratori locali. A partire da quello che fino a pochi anni fa è stato il dominus incontrastato della politica trentina: Lorenzo Dellai. Ebbene ISA Spa, nel 2005, “aiuta” la cantina a scalare una società di commercializzazione, acquisendone il 31%, che LaVis si assume l’obbligo di riacquistare 5 anni più tardi. Opzione, questa, che ISA esercita, guadagnando addirittura il 150% dell’investimento fatto. E ciò accade proprio pochi giorni prima che Lorenzo Dellai – allora presidente della provincia – decida di commissariare la cantina e porre fine ad un calvario che si protraeva da fin troppo tempo.
Come non ricordare, poi, l’affare, altrettanto fruttuoso, relativo all’area ex Italcementi: 5 ettari che ISA Spa decide di acquistare per 14,2 milioni di euro nel 2004, un anno prima che il gruppo Pesenti decida di chiudere definitivamente il cementificio di Trento. L’area, valutata pochi mesi dopo una ventina di milioni di euro, viene ceduta per 22 milioni di euro agli amici della potente Federazione della cooperazione trentina. In quel momento, al comando della Federazione siede Diego Schelfi, sodale storico di Dellai e che di ISA è allo stesso tempo consigliere di amministrazione, dopo esserne stato presidente nel biennio 2002-2003.
Ma è nell’intreccio politico-affaristico legato alla trasformazione dell’area dove sorgeva lo storico stabilimento della Michelin che la finanziaria della Curia trentina mostra il suo carattere. Chiamata in causa nel 1998 dall’allora sindaco di Trento Lorenzo Dellai (sempre lui!), ISA dà vita ad una cordata. Che serve per esercitare una prelazione su 116 mila metri quadri a cui il Comune dice di non essere interessato. Negli anni seguenti prende invece piede il grande progetto di rigenerazione urbana Le Albere, firmato da Renzo Piano e generosamente finanziato – si parla di oltre 120 milioni di euro – dallo stesso Dellai, nel frattempo diventato presidente della ricca provincia autonoma. Così come dai suoi successori. La Provincia, poi, pur di vedere decollare un progetto che avrebbe dovuto camminare sulle sole gambe di ISA e degli altri investitori privati, sceglie di accollarsi il costo milionario per lo spostamento nel nuovo quartiere della biblioteca universitaria. Ma soprattutto di mettere sul piatto 80 milioni di euro per dare vita al Muse, l’avveniristico Museo della Scienza, anch’esso disegnato da Renzo Piano.
Ma il quartiere, complici le condizioni difficili del mercato immobiliare, non decolla. Come ha scritto in tempi recenti il quotidiano locale L’Adige «appartamenti, locali e uffici per oltre 30 milioni di valore sono affittati. Il resto, il 40% del totale valutato più di 160 milioni, è invenduto». Con la conseguenza che «il valore netto del Fondo è sceso dagli 80 milioni iniziali a circa 50 milioni e il valore della singola quota da 50 mila a 31 mila euro». Se ne faranno una ragione i soci di ISA, a partire dall’Arcidiocesi di Trento. Che, al pari di tanti altri ‘feudi’ vescovili, appare ancora lontana anni luce dal sogno di Papa Francesco: una chiesa povera per i poveri.
@albcrepaldi
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