Religione
DDL Zan, Bergoglio delude i progressisti per evitare che la Chiesa vada in pezzi
Non certo un segnale di guerra, tantomeno una novità protocollare, ma la «nota verbale» con la quale la Santa Sede ha espresso al Governo italiano la propria insoddisfazione per il disegno di legge contro l’omotransfobia, il cosiddetto ddl Zan, segnala comunque una fase nuova del pontificato di Francesco, deludente per il cattolicesimo progressista, confortante per quello conservatore, teso a sacrificare un po’ della spinta riformista iniziale per garantire l’unità di una Chiesa cattolica mondiale in subbuglio.
La «nota verbale» che il Segretario per i Rapporti con gli Stati, ossia il «ministro degli Esteri» del papa, ha consegnato il 17 giugno scorso all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, e rivelata oggi dal Corriere della Sera, va detto, è tutt’altro che una mossa inedita, e niente affatto una dichiarazione di ostilità. I contenziosi tra Stati vengono frequentemente affrontati tramite questo strumento riservato, e così è avvenuto più volte, all’insaputa dell’opinione pubblica, anche tra le due sponde del Tevere. Il fatto che la rimostranza venga manifestata non tramite proclami pontifici, battage comunicativi, raduni di massa (basti pensare all’era del cardinale Camillo Ruini, dalla campagna astensionistica al referendum sulla procreazione medicalmente assistita al Family day, dai funerali negati a Piergiorgio Welby all’interventismo nella vicenda di Eluana Englaro), ma per mezzo dei canali diplomatici, mostra che l’intento non è lo scontro, ma il tentativo di una conciliazione. «Non è, quella della Santa Sede, la volontà di indebolimento delle garanzie che vogliono essere assicurate e non una nota in conflitto con lo Stato, ma una segnalazione anticipata di un rischio che si corre se le norme sono configurate per questi aspetti che sono segnalati», ha detto a Vatican News il costituzionalista Cesare Mirabelli. Il fatto poi che a stilare la nota sia l’arcivescovo inglese Paul Richard Gallagher, tutt’altro che un pasdaran, è la riprova che tra le Mura Leonine non sono andati al potere gli zuavi pontifici. Nessuna rottura irrimediabile, dunque, ma la segnalazione di un malumore, peraltro ampiamente anticipata dalla Conferenza episcopale italiana, e la richiesta, di fatto, di intervenire per tempo sull’iter legislativo per emendare, non accantonare, la nuova normativa. Più interessante sarebbe capire da quale parte politica e per quale interesse questa corrispondenza sia divenuta di pubblico dominio, e c’è da scommettere che si debba guardare al di qua del Tevere, tra partiti entrati in forte crisi di identità per l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Ma questa è un’altra storia.
Quel che però rileva, una volta attraversato il Tevere, è che pur con tutte le spiegazioni del caso il contenuto della «nota verbale» si pone in evidente discontinuità con l’atmosfera, le suggestioni, ma anche le prese di posizione che hanno marcato la prima parte del pontificato di Francesco. Il papa argentino, beninteso, non ha mai abbracciato, checché ne dicano i suoi tremebondi detrattori, né le battaglie lgbt+, né le posizioni «pro choice», né ha promesso una rivoluzione sui sacramenti, gli ordini sacri o altri aspetti della dottrina cattolica. E’ però indubbio che Francesco abbia fin da subito introdotto sul soglio pontificio un profondo cambio di linguaggio e di contenuto, archiviando la lunga epoca dei «principi non negoziabili», della bioetica scambiata per Vangelo, dell’ossessione per la sessualità. Sulla questione omosessuale, in particolare, ha sorpreso più di un monsignore di Curia derubricando le presunte intemperanze giovanili di un suo collaboratore a peccato di gioventù («Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?»), ed ha aperto ad una legge sulle unioni civili in una intervista che deve avere a tal punto scombussolato gli officiali vaticani da venire dapprima censurata e riapparire poi, non senza trambusto, in un film-documentario del regista, e attivista gay, Evgeny Afineevsky. Più in generale, Jorge Mario Bergoglio ha sempre mostrato, a parole e nei fatti, un grande rispetto per le legislazioni civili: non perché d’accordo con i singoli provvedimenti, ma perché convinto che sia su un altro campo, quello della testimonianza evangelica, che la Chiesa deve concentrare i propri sforzi. Lo si è visto, da ultimo, quando l’Argentina ha approvato una legge che ha allargato le maglie dell’interruzione di gravidanza, a gennaio scorso: il pontefice argentino evidentemente non ne è stato contento, quando poche settimane dopo ha ricevuto il presidente Alberto Fernandez in Vaticano l’incontro è stato piuttosto veloce e freddino, ma per tutta la campagna referendaria ha evitato di fare proclami o interventi plateali, preferendo scrivere alcune lettere private a sacerdoti e donne della sua patria impegnati localmente nel contrasto alla novità legislativa, oltre che nell’aiuto alle popolazioni povere.
Nel metodo, dunque, oltre che nel merito la «nota verbale» sul ddl Zan – peraltro riportata, ancorché brevemente, dall’Osservatore Romano e commentata su Vatican News – segnala una discontinuità. Discontinuità già percepibile da tempo. In particolare dal sinodo sull’Amazzonia in poi. La grande assemblea dell’ottobre 2019 ha rappresentato un po’ il culmine del pontificato. Il metodo sinodale (vescovi di tutti i paesi che affacciano sulla grande foresta latino-americana giunti a Roma per discutere e votare) ha prodotto un documento che proponeva al papa una serie di novità (viri probati, ossia l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati di provata fede che già svolgono la funzione di guide delle loro sperdute comunità; il riconoscimento alle donne di un ruolo di leader di comunità; l’introduzione di uno specifico rito amazzonico). Con l’esortazione apostolica «Querida Amazonia» Francesco non ha respinto, ma nemmeno ha fatto proprie quelle proposte. Ha tirato il freno. Per difendere l’intangibilità del celibato obbligatorio, del resto, era sceso in campo niente meno che Benedetto XVI, il suo predecessore, in un libro a quattro mani con il cardinale ultraconservatore Robert Sarah. Ma oltre il sinodo amazzonico, nel giro di pochi mesi sono emersi nella Chiesa di tutto il mondo spinte centrifughe. Compresse dalla pandemia, esplose nelle ultime settimane. Dalla Germania agli Stati Uniti. Dal cardinale Reinhard Marx, in Germania, che ha offerto al pontefice le proprie dimissioni – respinte da Bergoglio – in una lettera di maggio nella quale denunciava coloro che «rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione» di fronte alla «catastrofe» degli abusi sessuali, «crisi di sistema» che ha portato la Chiesa, non solo in Germania, ad un «punto morto», e che può trasformarsi in punto di svolta «unicamente» grazie al percorso sinodale in corso nella Chiesa tedesca. Ai vescovi degli Stati Uniti che, nonostante le raccomandazioni vaticane, hanno dato il via con ampia maggioranza ad un documento teso a criticare Joe Biden, il secondo presidente cattolico dopo John Fitgerald Kennedy, reo, per un consistente pezzo di cattolicesimo a stelle e strisce, di rispettare la sentenza del 1973 con la quale la Corte suprema Usa legalizzò l’aborto. La Chiesa cattolica mondiale dibatte, discute, brucia.
Jorge Mario Bergoglio, 84 anni, è preoccupato che le tensioni esplodano in divisioni. Punta ad una sinodalità che non sia però cacofonica. Vuole far avanzare la cattolicità senza strappi o fughe in avanti. «Oggi, se ascoltiamo lo Spirito, non ci concentreremo su conservatori e progressisti, tradizionalisti e innovatori, destra e sinistra: se i criteri sono questi, vuol dire che nella Chiesa si dimentica lo Spirito», ha detto a Pentecoste. La sua speranza è condurre la Chiesa «all’armonia delle diversità», alla «unità nella diversità». Il suo incubo è che riforma e unità siano un bivio. Il suo senso di responsabilità lo porta a intravedere la fine del pontificato e a voler lasciare al successore una Chiesa vivace, certo, ma non ingovernabile. Ribadisce la posizione tradizionale del magistero sui temi caldi della dottrina e della sessualità. Ha aperto porte e finestre, ha fatto circolare l’aria, è arrivato qualche refolo di vento. Si preoccupa, ma conosce la forza della storia. Quando in Germania alcuni vescovi si sono spesi a favore della benedizione delle coppie gay, la congregazione per la Dottrina della fede ha pubblicato un «responsum» ad una questione, giunta appunto dalla Germania, vietando tale benedizione. Un tempo, quando Roma si pronunciava, la discussione si chiudeva: «Roma locuta, causa finita», era il motto latino. Ora, dopo otto anni di pontificato, la cattolicità ha imparato a prendere la parola, anche contro chi gliel’ha data. Il responsum vaticano è stato accolto con aperto dissenso da numerosi fedeli, sacerdoti, anche vescovi e cardinali in buona parte dell’Europa del nord. Roma locuta, causa infinita.
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