Famiglia

Coppie sterili: figlie di un dio minore?

4 Aprile 2016

Nella Chiesa Cattolica quelle che vengono definite famiglie numerose (dai tre figli in su) sono sempre state considerate particolarmente importanti e portate come esempio, anche la relazione finale del Sinodo dei vescovi lo riaffermava “La presenza delle famiglie numerose nella Chiesa è una benedizione per la comunità cristiana e per la società, poiché l’apertura alla vita è esigenza intrinseca dell’amore coniugale”. Ci sono movimenti ecclesiali che si fanno particolarmente carico della promozione di questa “scelta” e la rappresentano anche in piazza. Non si può negare a questa realtà la sua bellezza, il suo andare controcorrente e anche le difficoltà che deve incontrare, ma – ed è un “ma” bello grosso – a volte ci si domanda perché la sensibilità della Comunità Cristiana verso questo tipo di famiglia non si accompagni anche ad una attenzione delicata verso chi una famiglia numerosa non può averla e nemmeno sognarla, alle tante coppie che non possono avere figli o che ne hanno uno solo pur desiderandone altri che non arrivano. A tutte queste coppie viene chiesto, in sostanza, di portare la propria croce,  non cercare aiuto nella scienza e restare in un angolo mentre dai raduni oceanici ai piccoli gruppi parrocchiali sfilano le famiglie con figli e se ne rivendica il valore sociale e religioso.

In questo quadro diventa non banale la notizia che il mese scorso nel Centro per Giovani Coppie di San Fedele a Milano, fondato dai Gesuiti, si sia svolta una tavola rotonda sul tema della fecondità e sterilità nella quale si è parlato anche e soprattutto di fecondazione in vitro e non solo di adozione, un tema decisamente più vicino alla sensibilità cattolica. Una vera buona notizia.

Quello che colpisce quando si parla di questi temi è come venga di fatto attribuito un significato molto diverso al desiderio di avere figli per chi li può avere naturalmente e chi no: quando una coppia è fertile e desidera figli questa è considerata una benedizione ed una testimonianza di apertura alla vita, quando lo stesso desiderio è espresso da una coppia sterile ne viene immediatamente messa in questione la genuinità e gratuità, si discute sul fatto che i figli sono un dono e non un diritto etc etc. Ebbene ritengo che in questo punto ci sia un cortocircuito, che occorra anzitutto restituire al desiderio di genitorialità la sua dimensione sempre e comunque ambigua: da un lato un sentirsi chiamati dalla Vita stessa a mettersi a disposizione perché questa possa manifestarsi una volta ancora all’opera nel mondo, dall’altro una proiezione un po’ narcisistica di sé fuori da sé oltre ad una risposta a spinte sociali e culturali che ci dicono che una coppia diventa famiglia solo se e quando nasce un figlio. Una volta accettato che questa ambiguità è sempre presente si può allora riconoscere che la qualità di questo desiderio non è diversa in un caso e nell’altro e che non si può pretendere che quando quel desiderio diventa soverchiante, fa male, punge nella carne, ci si “dimentichi” che la scienza può intervenire, può sostenere, può aiutare.

E allora, nel corso di quella tavola rotonda il teologo moralista Giannino Piana metteva in evidenza i dubbi che anche i teologi hanno rispetto alla condanna della fecondazione omologa, che veniva fatta anche nelle Donum Vitae di Giovanni Paolo II, perché mette l’accento solo sul processo di fecondazione e quindi sul fatto che c’è una discontinuità tra vissuto sessuale della coppia e fecondità, mentre diversi teologi ritengono che la continuità da prendere in considerazione non possa considerarsi soltanto sul piano fisico, ma anche su quelli affettivo, progettuale etc che sono invece presenti. Se anche tra i teologi, quindi, manca un pieno accordo su questi temi, chissà che i documenti ecclesiali futuri non tengano conto di queste critiche e delle diverse riflessioni. Intanto, però, resta la quotidianità delle comunità ecclesiali nelle quali chi sceglie questa strada o si allontana o si nasconde e questo è, a parer mio, inaccettabile. Chi su questi temi ha molte certezze dice che non si può aprire la strada a queste pratiche, che basta una fessura o in brevissimo tempo ci si ritroverebbe con fecondazione eterologa e utero in affitto, ma questo meccanismo difensivo non può durare per sempre e soprattutto non può giustificare un pontificare sulla pelle degli altri senza almeno farsi qualche domanda. Nel corso della tavola rotonda di cui parlavo il dottor Francesco Fusi del Centro di fisiopatologia della riproduzione degli Ospedali Riuniti di Bergamo ha detto delle parole su questo molto significative: “In provetta non si crea niente, mettiamo dei gameti in condizione di incontrarsi, poi è la libertà della natura o di Dio se si crede, a far sì che da questo vengano dei bambini”. Quante certezze moralistiche mi pare che crollino davanti a questo semplice dato di realtà.

Allora mi chiedo: nel giubileo della Misericordia può trovare spazio anche uno sforzo di sottrarre la dimensione della fecondità fisica al “dover essere”, alla morale, per restituirla al mistero e alla relazione? E, concretamente, si può provare ad attribuire al desiderio dell’altro un valore almeno pari al mio? Perché da questa attribuzione si può partire per comprendere l’eventuale sofferenza dell’altro e far nascere la vicinanza, il sostegno, la fraternità e non il giudizio e la distanza. Altrimenti le nostre comunità, i nostri gruppi di famiglie vedranno crescere sempre più crepacci al loro interno e non potremo più chiederci perché il “mondo” non ascolta la voce della chiesa sui temi legati al principio della vita.

Amare e difendere la famiglia è, credo, anche questo: accogliere le famiglie per come sono realmente e non per come ce le rappresentiamo e ridare al messaggio di apertura alla vita la sua bellezza, rinunciando a farne un giavellotto da scagliare sugli altri.

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