Giustizia
Chiedere l’annullamento della Sacra Rota oggi ha ancora senso?
Divorziare non è mai stato così facile ed economico. E allora, in un contesto del genere, l’annullamento della Sacra Rota (o, più correttamente, la dichiarazione di nullità del sacramento del matrimonio) ha ancora senso? Non solo nelle sue conseguenze giuridiche ed economiche, ma anche per come è organizzata.
Ad esempio tempo fa l’annullamento era anche una scappatoia per non mantenere più l’ex coniuge, ma questa esigenza è stata cancellata dalla famosa sentenza 11.504/17 della Cassazione, che afferma che l’assegno di mantenimento non va più stabilito in base al tenore di vita precedente ma alla semplice sopravvivenza: un taglio drastico.
Inoltre le sentenze rotali erano molto più veloci di quelle della giustizia italiana, ma la legge 55/2015 ha introdotto il noto divorzio breve, che ha risolto il problema dei tempi.
Certo ricorrere alla Rota è l’unico modo per potersi rifare una vita affettiva e contemporaneamente continuare a ricevere la Comunione, nonostante le recenti aperture della Chiesa ai divorziati risposati.
Abbiamo chiesto a un’avvocata rotale, che per motivi professionali chiede di restare anonima, se la Rota è ancora attuale.
Avvocata, da un punto di vista pratico, relativo alla vita concreta delle persone, rivolgersi alla Rota ha ancora senso?
«Penso che non debba essere confuso l’ordinamento civile con quello canonico. Partiamo da due presupposti completamente diversi. Spesso chi chiede la nullità del proprio matrimonio religioso alla Chiesa è già divorziato.
Come scriveva San Giovanni Paolo II, “ci si sposa in Chiesa perché il matrimonio diventi sacramento che trasmette le risorse della Redenzione a Cristo, quella forza soprannaturale che permette agli uomini, che comunque rimangono esseri umani, di vivere secondo il disegno di Dio, di vivere come figli di Dio” (Educare ad amare, Scritti su matrimonio e famiglia). Il matrimonio canonico è quindi un Sacramento in cui è essenziale il consenso delle parti che deve essere libero, consapevole, posto nella forma corretta e senza impedimenti.
La consapevolezza del valore sacramentale delle nozze spinge il fedele a rivolgersi alla Chiesa non certo per delle difficoltà sorte nel corso del matrimonio, più o meno gravi, come accade nel caso del divorzio, ma per chiedere una verifica sulla validità del consenso prestato. Nel chiedere la nullità del proprio matrimonio, la persona è quindi portata a porre l’attenzione sulla validità o meno del proprio consenso nuziale e questo in un’ ottica di fede, consapevole che quando si è sposata si è impegnata davanti a Dio e che un eventuale scioglimento di un patto ritenuto il fondamento del legame indissolubile tra l’uomo e la donna può avvenire solo per volontà della Chiesa.
Le possibili crisi del rapporto coniugale sono quindi affrontate dall’ordinamento canonico non in chiave di divorzio, quindi in una prospettiva che ritenga sciolto il matrimonio ex tunc, ma valutando se il sacramento matrimoniale si sia validamente costituito dall’inizio».
Lei sottolinea che la dichiarazione di nullità è un atto giuridico, ma dalla Chiesa non ci si potrebbe aspettare di più in un avvenimento di grande sofferenza come quello di un matrimonio dichiarato nullo? Penso a un momento di preghiera, un percorso di accompagnamento per il dopo.
«La dichiarazione di nullità è l’esito di un procedimento giuridico che si svolge davanti ai Tribunali diocesani ed eventualmente davanti al Tribunale della Rota Romana. Penso che questo accompagnamento della Chiesa di cui parla debba più provenire dalla testimonianza degli operatori che vi lavorano, giudici, avvocati, notai piuttosto che da preghiere più o meno imposte (e spesso subite). Una testimonianza di persone che concepiscono questo lavoro come orientato alla salvezza delle anime, compresa la loro e che, quindi, cambia completamente il modo di approcciarsi e di accogliere la persona. Penso che sia molto più utile per uno che intraprende questo percorso nei tribunali ecclesiastici. Vedere dei volti lieti, che svolgono il proprio lavoro con serietà, competenza e amore, che non giudicano ma invece cercano di condividere il percorso di sofferenza della persona è il modo migliore per far capire che solo Cristo rende persone nuove e che questo percorso può veramente portare a riscoprire o approfondire questa novità.
Ritengo che sia questo il migliore accompagnamento della Chiesa durante il processo e su questo tutti, noi operatori, dovremmo lavorare e farci aiutare; poi starà nella libertà della persona chiedere e ricercare gli strumenti più adeguati per il proprio cammino di fede, si spera, ridestato».
Secondo lei, a seguito del motu proprio di Papa Francesco del 2015, con il quale il Santo Padre, tra le altre cose, ha accorciato i tempi delle cause e tagliato le spese legali a carico dei ricorrenti, la Rota non ha bisogno di ulteriori riforme?
«Sicuramente delle cose potrebbero essere cambiate o diverse e si spera che con il tempo ciò avvenga. Una di queste potrebbe essere l’abbandono dell’uso del latino quantomeno nelle sentenze, dato che le rendono di difficile comprensione alla maggioranza delle parti. Ma sono cose, in fondo, marginali, tecniche. Il vero cambiamento, a mio parere, dovrebbe avvenire prima, a monte, e dovrebbe cercare di contrastare la tendenza sempre più diffusa a quella che potremmo definire una “privatizzazione del matrimonio”, intesa come perdita della prospettiva pubblica della situazione famigliare dei coniugi, ovvero la tendenza svuotare il matrimonio delle sue caratteristiche e dei suoi requisiti intrinseci.
Maggior attenzione andrebbe posta soprattutto nella preparazione al matrimonio e nel potenziamento di quella che è stata definita la “via pulchritudinis”, ossia la via della testimonianza carica di attrattiva della famiglia (Sinodo dei Vescovi, n.59 -2014)».
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