Religione
Charlie Hebdo, un anno dopo l’assassino è in libertà e il sarcasmo non ci basta
“Un anno dopo, l’assassino è ancora in libertà“. E il mandante più che esecutore dell’attentato che Riss, direttore di “Charlie Hebdo”e disegnatore della copertina del numero che il periodico satirico pubblica sul numero in edicola da oggi in occasione del primo anniversario della strage.
La vignetta è chiara: Kalashnikov sulle spalle, vestiti pieni di sangue, sguardo in cui l’aggressività si mescola con la sensazione di essere ricercato, “Charlie Hebdo” sbatte Dio (più precisamente l’iconografia di Dio) in copertina e lo indica come il più ricercato di tutti ancora a piede libero.
Un anno dopo l’attacco e la strage a “Charlie Hebdo” , forse si è prodotta maggiore chiarezza ma non una politica.
Dove sta la chiarezza? Sta che oggi non si ripete ciò che 12 mesi fa.
Il numero di “Carlie Hebdo”che da oggi, 6 gennaio, è in edicola ha una copertina che molti hanno criticato, in particolare “L’Osservatore Romano” che riprendendo le parole del presidente del “Conseil français du culte musulman”, Anouar Kbibech, quando afferma che si tratta di “un’immagine che ferisce tutti i credenti delle diverse religioni”: è una caricatura che non aiuta, in un momento in cui abbiamo bisogno di ritrovarci fianco a fianco”.
Che cosa dunque non si ripete? Non si ripete la solidarietà che allora fece pubblicare le vignette del settimanale satirico anche a periodici che mai avrebbero condiviso niente con “Charlie Hebdo”.
Quell’unanimismo non si ripete oggi. E’ un dato positivo perché l’unanimismo allude a una condizione che presenta due aspetti problematici: è vittimario e intriso di rancore.
Nessuna di queste due condizioni produce politica democratica.
Né la prima condizione perché sulla colpa si è costruita spesso una politica che non è capace di autoanalisi e dunque di mettere sotto la lente della critica se stessa; né la seconda perché le politiche che nascono e si originano dal rancore hanno come obiettivo quello di individuare un colpevole ad ogni costo. Spesso quel colpevole ha la fisionomia e lo statuto del capro espiatorio.
Ma ciò detto la questione non è ancora risolta, perché se la vignetta di Riss coglie il bersaglio, poi il modo in cui Riss la presenta, non mantiene la promessa.
Le parole con cui Riss spiega quella vignetta – “un credente, soprattutto un fanatico, non dimentica mai l’affronto fatto alla sua fede, perché dietro di sé e davanti a sé ha l’eternità. Ed è l’eternità che ci è piombata addosso quel mercoledì 7 gennaio – indicano che a freddo Riss propone un ragionamento. Ma è ancora troppo coinvolto emotivamente per svolgerlo.
L’ironia se ridotta a ridicolizzazione non aiuta a smontare il meccanismo mentale e i contenuti culturali del fanatismo. Semplicemente li esaspera.
La procedura mentale, culturale, politica, con cui occorre contrastare il fanatismo è chiedere che esso sia sottoposto all’esame della ragione e che dentro quella ragione uno dei modi per dare corpo a quella procedura sia l’ironia.
Non si tratta di essere tolleranti, sentimento che nasce dall’autoriconoscere la propria superiorità a fronte di ciò che si presenta come arretrato, come resistente alle proprie idee, ma di maturare un rapporto esigente sui contenuti della scelta fanatica, e dunque sui sentimenti, sulle convinzioni che portano a d assumere quella scelta. Scelta che si presenta attraverso la figura dell’intransigenza e che fa di questa figura il perno di una scelta antisistema.
L’emergere del fenomeno fanatico nelle seconde e terze generazioni di immigrati che costituiscono l’esercito di riserva consistente dei “foreign fighters” ci obbliga ad avere uno sguardo meno schematico su un fenomeno che mette in discussione il nostro tempo.
Dentro a questo fenomeno non sta prevalentemente la rivendicazione di un diritto alla felicità che l’economia non avrebbe riconosciuto, ma il rifiuto di una forma di benessere sociale, morale, prima ancora che economico.
E’ un fenomeno che né nasce né è la conseguenza di un pensiero religioso, ma è dato dalla rivolta contro un sistema che si ritiene “falso” che promette un “bene falso” e contro il quale non può esserci né tregua né pietà.
E’ la rivolta di coloro che si sentono depositari della verità, testimoni di Dio, e che perciò non pensano che né il perdono né la comprensione siano una via di riconciliazione che redime e “salva” i reprobi.
Ma anche una rivolta di coloro che scoprono la verità della parola di Dio come arma contro la corruzione, come via per la salvezza, (un modello che in Occidente è rappresentato dalla figura di Francesco e dalla rivolta contro il costume e l’ethos della mondanità che quell’esperienza di rivolta rappresenta), un fenomeno che l’Europa ha conosciuto profondamente tra XII e XV secolo e che poi ha ritornato molte volte. Ma sulle cui modalità di risposta non conserviamo memoria, né abbiamo fatto in modo di modernizzare e “mettere a giorno”, le regole che il pensiero scettico e razionale tra fine ‘600 e inizio ‘700 aveva cercato di costruire.Vuol dire riprendere in mnao Locke, Bayle, Shaftesbury, Spinoza.
A noi è rimasto solo il sarcasmo di Voltaire. Per esempio si veda il lemma Fanatismo del suo Dizionario filosofico, laddove scrive:
“Che cosa rispondere a un uomo il quale vi dice che preferisce ubbidire a Dio che agli uomini e che, di conseguenza, e sicuro di meritare il cielo sgozzandovi? Di solito sono le canaglie a guidare i fanatici e a mettere loro in mano il pugnale; somigliano a quel Vecchio della Montagna che faceva, si dice, gustare le gioie del paradiso a certi imbecilli, e prometteva loro un’eternità di quei piaceri di cui avevano avuto un assaggio, a condizione che andassero ad assassinare tutti coloro che egli avesse indicato”.
E’ una logica che oggi non funziona proprio perché si nutre di superiorità e crede così d battere il pensiero fanatico che legge come “primitivo”. Non può funzionare.
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