Religione
Aspetti ancora qualcuno? La solitudine di chi crede ancora a una promessa
Se non ci metterà troppo, l’aspetterò tutta la vita.
Oscar Wilde
La vita è piena di attese: attendiamo che qualcosa cambi nell’altro, attendiamo di trovare una risposta alle nostre domande, attendiamo tempi migliori. E per lo più queste attese restano deluse. Viviamo lo stesso e impariamo a non sperare più.
Il testo di Isaia è invece una provocazione per tornare a sperare anche laddove ci sembra impossibile. Sebbene si tratti del capitolo 40, siamo infatti all’inizio del libretto che comprende i capitoli 40-55 attribuiti a un autore di cui ignoriamo il nome e che viene solitamente chiamato Deutero-Isaia (il secondo Isaia). Non si tratta infatti del profeta Isaia, vissuto nell’VIII secolo e a cui appartengono i primi 39 capitoli di quello che conosciamo come libro di Isaia, ma si tratta di un profeta vissuto al tempo dell’esilio in Babilonia, che ha condiviso la sorte degli esuli, dal 586 al 539, e che scrive quando l’esilio è finito, proprio per dire alla sua gente che un nuovo inizio è possibile. Gli esiliati possono ritornare nella terra promessa.
La prima parola di questo libretto è “consolate”. È un grido che somiglia a quello di un comandante, è la parola ricevuta che i soldati si ripetono l’un l’altro, è l’ordine che pian piano si trasmette a tutto l’esercito e progressivamente lo mette in moto. La parola di consolazione che il profeta riceve da Dio e consegna al popolo è parola che attiva, che fa camminare.
Molto spesso però la desolazione e lo scoraggiamento ci bloccano e ci impediscono di andare a vedere se qualcosa può cambiare, anzi, ci chiudiamo nelle nostre trincee e impediamo a tutti, indistintamente, di entrare nella nostra vita. Ci isoliamo con la nostra disperazione e continuiamo a chiederci «dov’è il cambiamento, la speranza, quando arriverà?».
Allo stesso modo, davanti alla parola del profeta, il popolo si chiedeva «ma dov’è il Signore?».
E come potremmo vederlo se nel deserto non abbiamo preparato alcuna strada, ma abbiamo lasciato tutto nell’indeterminazione della sabbia, che cambia forma ad ogni soffio di vento? Come potremmo vederlo se la steppa dei nostri ragionamenti è ancora così rigogliosa da impedire di guardare oltre? Come potremmo vederlo se le montagne dell’orgoglio sono ancora così alte da oscurare l’orizzonte? Come potremmo accogliere il Signore se il terreno del nostro cuore è ancora così scivoloso da impedire alla sua parola di mettere radici?
Isaia parla a un popolo disperso, un popolo che vede solo macerie, eppure invita a non temere e ad alzare la voce perché tutti sentano. Il grande pericolo dei cristiani è oggi quello di rassegnarsi all’esistente, è la tentazione dello scoraggiamento, il rischio di farsi travolgere dall’evidenza del disastro. Il profeta ci invita a salire su un alto monte, affinché tutti possano sentire. Forse questa parola oggi ci interpella e ci sprona ad essere messaggeri di speranza, non nei nostri conciliaboli segreti, ma sulle alture, affrontando il rischio dell’incomprensione e dell’umiliazione. Il profeta vede in quelle macerie il futuro di Gerusalemme, il nostro sguardo rischia invece di appiattirsi sul presente.
Il popolo di Isaia fatica a credere nella liberazione, perché non riesce ad accettare che possa essere gratuita: l’esilio era stato meritato, ma può essere meritata la liberazione? Il popolo riconosce che non è degno di essere liberato, ma d’altro canto non crede nella gratuità di quella azione di Dio. È esattamente ciò che ormai la Lettera a Tito ha compreso:
Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro,
e il suo amore per gli uomini,
egli ci ha salvati,
non per opere giuste da noi compiute,
ma per la sua misericordia.
Siamo diffidenti verso l’azione di Dio perché ci vergogniamo di ricevere qualcosa gratuitamente. Preferiamo guadagnarcela, meritarla. E per questo rimaniamo bloccati, perché non possiamo essere salvati dalla nostra disperazione se non da qualcuno che viene a prenderci e ha il potere di portarci fuori dalle nostre tombe.
Non a caso il testo di Luca riparte proprio da qui, dall’attesa del popolo. Dopo tanto tempo, la situazione non è cambiata: Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo…
C’è sempre un motivo per aspettare. Forse sarebbe stato anche più conveniente riconoscere in Giovanni il Messia, perché almeno ci chiedeva qualcosa da fare, una penitenza, uno sforzo. Gesù invece si presenta come la misericordia totalmente gratuita del Padre. Rovescia la nostra logica e ci chiede di fare altrettanto.
L’attesa è compiuta nel momento in cui Dio ha sposato le sorti dell’umanità: Gesù scende nelle stesse acque dove sono passati gli uomini con i loro peccati. Gesù è l’immagine di un Dio che non si tiene a distanza, ma si coinvolge nelle sofferenze della gente.
In questa immagine di amore che è condivisione fino in fondo, che è spreco e dono, consegna della propria vita per la salvezza di altri, proprio qui c’è Dio, c’è la Trinità: non solo il Figlio, ma la voce del Padre e lo Spirito come se fosse il volo di una colomba. Il Padre accoglie l’offerta del Figlio, lo invia, lo investe della missione di salvezza. Lo Spirito, come al suo aleggiare all’inizio della creazione, attesta che Gesù è il Messia annunciato da tutta la Sacra Scrittura, è il compimento delle promesse.
L’attesa si è compiuta. Questa è la promessa. È la certezza della parola del salmo:
«Tutti da te aspettano
che tu dia loro cibo a tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono;
apri la tua mano, si saziano di beni».
*
Meditazione per la festa
del Battesimo del Signore anno C
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