Religione

Addio a Benedetto XVI, che ci ha mostrato l’abisso della fede e del dubbio

31 Dicembre 2022

Quasi dieci anni fa, per le sue clamorose dimissioni, scrissi su Linkiesta queste righe per celebrare Benedetto XVI, capace di un gesto destinato a cambiare non solo la storia della Chiesa ma anche – forse soprattutto – la storia della mentalità contemporanea. Le ripropongo oggi, dieci anni dopo, in occasione della sua morte, avvenuta stamane all’età di 95 anni. 

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Una scelta che sta chiusa nel segreto di una coscienza. Di credente, di prete, di vescovo e di pontefice. Oltre il banalesimo imperante e il vaticanismo dell’era di Twitter. Oltre la tentazione facile di trasfigurare la rinuncia di Benedetto XVI dentro categorie terrestri e mondane. Oltre il bisogno, anche il dovere se volete, di cercare il dettaglio decisivo nello scandalo insabbiato dello Ior.

C’è un “oltre” che prende per mano l’uomo laico, e lo porta lungo l’abisso della fede, crinale incomprensibile e scandaloso e che interroga le coscienze di tutti, credenti e non. Perché provare a entrare nel cuore del credente Joseph Ratzinger è impresa titanica anche per chi sia dotato di grande fede, figuriamoci per tutti gli altri, per gli atei appesi a un “filo di fede” e per quanti questo filo lo hanno perduto o non l’hanno mai trovato. Eppure questa immedesimazione impossibile è l’unica via per provare a illuminare, magari fraintendolo, il percorso umano e la scelta di Joseph Ratzinger. Un credente filosofo di ottantacinque anni che da quando ne aveva venti si è dedicato a una missione intellettuale e di fede, alla comprensione e alla teoresi, allo studio di chi cerca di capire e sostenere con la ragione, fino a dove si può, i misteri della fede. Sapendo il limite dell’intelletto, dell’uomo, e la necessità e il bisogno di affidarsi e credere a quello scandalo della storia che è la morte e resurrezione di Gesù Cristo, e credendo – profondamente, coerentemente – alla Chiesa come incarnazione imperfetta eppure ineludibile del popolo di fedeli nella storia.

Capire, credere, essere Chiesa. Potremmo dunque definire così, in tre concetti rapidi e convenzionali, certo incapaci di restituire decenni di percorso che vivono per definizione l’eredità di millenni, il dna di quest’uomo che ieri ha scosso la storia come fosse un grande albero che pareva inamovibile. Con la forza del simbolo, alla faccia di chi credeva che la forza evocativa della Chiesa di oggi potesse darsi solo nelle adunate oceaniche del suo predecessore. È in questo percorso che dobbiamo provare a entrare se vogliamo guardare con le lenti giuste la rivoluzione di Ratzinger. Un uomo che è arrivato a guardare fin nelle viscere più profonde la fragilità della Chiesa cattolica, del suo esempio, della sua storia, del suo pensiero teologico e delle sue più profonde e radicali contraddizioni. Un uomo che per ventiquattro anni ha custodito, dai vertici della Congregazione per la Fede, l’ortodossia della dogmatica e poi, dal soglio Pontificio, ha guidato la Chiesa, la diocesi di Roma, il potere vaticano. Lo ha guidato, combattendone le incrostazioni, chiamando col loro nome le perversioni e i delitti (come la pedofilia e la corruzione) che sembravano un contagio virale dentro la sua Chiesa. Quella Chiesa senza la quale – il magistero di Ratzinger è rigorosissimo e fortemente tradizionale, in questo senso – non si dà la pienezza della fede in Cristo.

E proprio qui – perdonerete queste congetture, fallibili certo, ma attente a non sfiorare l’empietà – stanno i nodi dell’abisso che ha portato Benedetto XVI decidere di essere il primo “ex Papa” della modernità. In questa indispensabilità della Chiesa, di quella Chiesa che Ratzinger sentiva il bisogno di rivoluzionare per riportarla alla pienezza della rivelazione, sta la vertigine di un cortocircuito che spaventa. Proprio nel suo frugare con il rigore dell’intellettuale e con il fervore di chi aveva dedicato un’esistenza intera a sostenere con l’intelletto il percorso della fede in Cristo e nella Chiesa, Benedetto XVI è arrivato sull’orlo di un baratro: e se i vertici della Chiesa, vera incarnazione di Cristo, fossero invece diventati una calcificazione troppo spessa, quasi un diaframma che tiene lontana la fede? Avrà pensato con tormento – su questo ha senso scommettere – alla sua sconfitta più grande: la bonifica dello Ior che aveva affidato a Ettore Gotti Tedeschi, espulso con infamie, come fosse un corpo estraneo, dal blocco vaticano che risponde alla segreteria di stato del cardinale Tarcisio Bertone.

Avrà pensato all’umiliazione di uno scandalosenza confini, all’orrore della pedofilia, dentro alla Chiesa fondata da chi ammoniva: «Chi dà scandalo ai bambini, meglio per lui sarebbe che fosse gettato con una pietra al collo nel mare». Avrà pensato al limite, umanissimo, di chi per primo ha visto la realtà e l’ha nei limiti del possibile resa pubblica, invece di nasconderla dietro a un patto del silenzio che era solo ipocrisia, per poi ammettere che ciò che di cattivo e demoniaco c’era, nella sua Chiesa, era più forte della volontà di un Papa retto. Tanto che, commentando pochi mesi fa la guerra giusta di Joseph Ratzinger, un vecchio cardinale della Curia romana, uno che le ha viste tutte, sintetizzava così il quadro: «Qui dentro, il 30% sono corruttori, il 30% corrotti, il 30% impiegati in carriera, il 10% credenti. Ma solo il 2% sono santi».

E si è trovato così, Joseph Ratzinger, nudo e vecchio di fronte a un Crocifisso che taceva, ricordando ogni giorno alla sua Chiesa quell’atto fondativo, quella morte umiliante e tanto stridente con l’immagine di un ceto ecclesiale egemone che combatteva – tra l’altro – per non portare lo Ior a standard di trasparenza internazionali, arrivando in ritardo perfino sui più noti paradisi fiscali. Si è ritrovato, mentre il giorno ultimo si avvicinava a grandi passi, di fronte ai dilemmi di ogni vita, anche di quelle sostenute dalla fede più profonda, e fino all’abisso del dubbio, quello stesso dubbio di fede che assalì – perfino – Gesù Cristo inchiodato alla croce.

Lo immaginiamo, adesso, che conta i giorni che lo separano da quel silenzio, dai suoi libri, dalle messe celebrate in solitudine interrogando il buio delle chiese vaticane, ora illuminato dal sorriso pieno della fede, ora intorbidito dalla tentazione del dubbio e della memoria di nomi, volti, facce, empietà vestite di porpora. Lo vediamo immerso nella Parola, e ci piace sentirlo che ripete, tra sé e sé, quelle parole che San Paolo scrisse quando il martirio era già l’orizzonte, e che Benedetto XVI ha meditate diecimila volte nella sua lunga vita di cristiano: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione». In quell’ultimo giorno – il fedele Joseph lo sa – il Signore separerà i giusti dai traditori, i caldi dai tiepidi, i fedeli dagli empi. E la fede delle cose ultime, quelle che per il cattolico stanno dopo il transito terreno, sarà anche la sua pacificazione più profonda: dove ha fallito lui, grande uomo conscio di un’ancor più grande debolezza e irredimibile finitudine, non fallirà Lui. A quell’incontro di giustizia definitiva, di fede non riproducibile con le parole, si preparerà Joseph Ratzinger, ex Papa, e uomo giusto.

Lunga vita, Sua Santità

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