Costume
A ogni bottiglia la sua etichetta. Cosa c’è dietro a questo tempo di conflitti
Dove c’è odio, che io porti l’amore.
San Francesco
I conflitti, è vero, sono inevitabili. Fanno parte della vita. Anzi, i conflitti sono possibilità di vita. Permettono una ripartenza. Il conflitto è un sintomo che qualcosa va risistemato. L’assenza di conflitti è probabilmente indice che non c’è neppure una relazione.
Come ricordava Schopenhauer, se due porcospini si avvicinano, sentiranno il dolore provocato dagli aculei dell’altro. Possono scegliere allora di tenersi a distanza per non provare più dolore oppure possono cercare di posizionare i propri aculei in modo da stare vicini senza farsi male. È inevitabile però che i movimenti naturali, ora dell’uno ora dell’altro, provocheranno dolore e richiederanno una nuova sistemazione.
Da questo punto di vista, allora, il nostro tempo, che è un tempo di conflitti diffusi, potrebbe essere un’occasione propizia. Ciò non toglie che i conflitti che caratterizzano l’umanità di questo tempo siano molto preoccupanti.
Il linguaggio che utilizziamo sui social è altamente conflittuale, la rete è diventata il luogo in cui gettare le nostre frustrazioni: quei sentimenti di rabbia che non abbiamo il coraggio di esprimere direttamente nella vita, li immettiamo nella rete, pensando così di allontanarli magicamente da noi.
Siamo sempre più inclini a creare conflitti: me ne accorgo non solo leggendo i giornali, ma anche ascoltando cosa avviene nelle comunità parrocchiali, nelle comunità religiose e ovviamente nelle famiglie.
La conflittualità sta diventando una modalità culturale, certamente non nuova, visto che il testo del Vangelo di oggi nasce probabilmente dalla constatazione di una comunità cristiana altamente conflittuale.
La conflittualità che stiamo attraversando è però particolarmente preoccupante perché caratterizzata da una forte polarizzazione: tendiamo a creare dei fronti.
Ciascuno di noi viene etichettato: o stai da una parte o dall’altra. La via di mezzo non è possibile. I giornali si attivano immediatamente per presentare chi è a favore e chi è contro. Come se la vita fosse necessariamente una battaglia. Su un argomento, su un’idea, su un personaggio non è più possibile avere una propria opinione: o sei con me o contro di me. Eppure si può avere una propria idea anche senza essere contro nessuno.
Etichettare è un modo economico per rappresentarsi la realtà. In questo modo non perdiamo tempo a indagare le ragioni dell’altro, evitiamo di metterci in discussione, non corriamo il rischio di dover apportare modifiche al nostro modo di pensare. Ma etichettare è anche un modo aggressivo di comunicare: l’altro è ridotto a una bottiglia su cui affiggere un’etichetta o un muro su cui esporre un manifesto.
Possiamo attraversare il conflitto solo se diffidiamo dall’etichetta e proviamo ad assaggiare il prodotto, con tutte le cautele, certo, per evitare di restare avvelenati.
Sappiamo bene però che quest’aria di conflitto che ci avvolge è il riflesso del conflitto che ciascuno si porta dentro. Se siamo così inclini a mettere etichette, affiggere manifesti, o a creare frontiere, vuol dire che lo facciamo innanzitutto con noi stessi.
Quello che ci dà fastidio nell’altro è sempre qualcosa che richiama un aspetto di noi che non accettiamo o qualcosa che noi non abbiamo e che vorremmo avere.
Se siamo in conflitto con qualcuno, occorre chiedersi innanzitutto se non siamo forse in conflitto con noi stessi. Siamo dimezzati, divisi, come il visconte del romanzo di Calvino: il conflitto tra il bene e il male ci abita, siamo trascinati da una parte e dall’altra e solo quando le due metà si scontrano a duello, scucendosi le bende, è possibile ritornare a mettere insieme le due parti.
Riconciliarsi con se stessi è allora il primo passo per costruire cammini di riconciliazione con gli altri. In questo testo del Vangelo, Gesù ci invita ad andare incontro all’altro anche quando ci accorgiamo che è l’altro ad avercela con noi.
È vero, magari abbiamo ragione, ma se l’altro ha qualcosa contro di noi, non possiamo presentarci all’altare per offrire il nostro dono, siamo strettamente vincolati all’altro, il mio bene è intimamente legato al bene della comunità.
Quel dono, che è la vita, infatti, non posso mai portarlo da solo. Dono, in latino, è munus, che vuol dire anche responsabilità. Essere in co-munione o anche co-municare vuol dire portare insieme il dono/munus all’altare di Dio.
Non possiamo sentirci a posto se il nostro fratello ha rinunciato a portare quel dono con noi, anche se non è colpa nostra!
Certo, vivere andando a cercare il fratello è molto più faticoso. Fare da soli la strada verso l’altare di Dio è molto più economico, ma non sempre il risparmio è un guadagno, e soprattutto non è la via del Vangelo.
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Testo
Leggersi dentro
- Prova a ricordarti se c’è qualcuno che ha qualcosa contro di te: hai lasciato il tuo dono ai piedi dell’altare per andare prima a riconciliarti con lui?
- Ci sono dei conflitti interiori che stai affrontando in questo periodo?
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