Religione
A furia di metterci una pietra sopra… sono diventato una catena montuosa
Meditazione per la Domenica di Pasqua (Gv 20, 1-9).
Quando vogliamo chiudere una discussione, quando vogliamo dimenticare qualcosa, quando preferiamo non ritornare più su un argomento spiacevole, diciamo che è meglio “metterci una pietra sopra!”. Sopra che che cosa? Se pensiamo al peso che portiamo sullo stomaco, se facciamo caso all’aria che ci manca, comprendiamo che forse tutte quelle pietre le abbiamo messe sopra di noi.
Trasformiamo così la nostra vita in un sepolcro, caricato del peso di quelle pietre che ci siamo messi addosso. È il peso di tutto quello che non vogliamo vedere, quello di cui non ci va di parlare, è il peso dei nostri dispiaceri che non scompaiono anche se decidiamo di fare finta che non ci siano.
Anche Maria di Magdala, insieme con gli altri discepoli, ci ha messo una pietra sopra. Hanno messo una pietra tombale sulla loro delusione: Gesù non era quello che loro hanno immaginato. Si aspettavano un’occasione di riscatto, una soluzione alle loro vite sfasciate, e invece le loro speranze sono state deluse.
Non resta che un sepolcro, un luogo dove piangere.
Siamo soliti riempire la nostra vita di sepolcri, cioè di luoghi presso cui andare a lamentarci. Un sepolcro lo troviamo sempre, c’è sempre un’occasione per non essere felici.
Anche Maria di Magdala cerca un sepolcro dove piangere. Esce di casa appena possibile, quando è ancora buio. E forse quel buio è nel suo cuore. Maria non vede l’ora di andare a fare il suo lamento, esce di casa appena possibile.
Il desiderio di Maria non la porta davanti a una risposta, ma davanti a una domanda. Il sepolcro vuoto è un interrogativo che spinge a cercare: “non sappiamo dove l’hanno posto!”. Dove sarà Gesù? Dove sarà possibile trovarlo? È l’interrogativo che ogni cristiano continua a porsi. È la domanda che ci spinge a cercare di Gesù nelle situazioni banali della nostra vita. Dove sei Gesù? Dove ti posso trovare? E non esistono risposte preconfezionate o uguali per tutti. Ognuno di noi è chiamato a dare la sua personale risposta a questa ricerca.
Anche Pietro e il discepolo amato cercano Gesù in modi diversi. Dipende dalla loro storia e dalla loro esperienza.
Il discepolo amato ha messo la sua testa sul petto di Gesù, ha imparato a riconoscere come palpita il cuore di Cristo, è il discepolo che si è sentito amato. È così attratto dalla presenza di Gesù che si mette a correre. È il discepolo che non cerca necessariamente di capire, ma sa contemplare. Il cuore intuisce e molte volte precede la ragione. Il discepolo amato sa riconoscere la presenza di Cristo anche nella sua assenza.
Pietro invece è l’uomo rallentato dalla pesantezza del suo tradimento. Arriva sempre dopo. La sua fede è invecchiata, non ha più la freschezza della giovinezza. Pietro non si lascia andare, ha bisogno di comprendere. Guarda, ma ancora non si compromette. Ha bisogno di tempo per capire, ma soprattutto ha bisogno di fare l’esperienza di essere perdonato.
Per ciascuno di noi oggi inizia una ricerca: dove vedrò il volto del risorto? Come riconoscerò la presenza di Cristo nella banalità del quotidiano?
Se rimaniamo attaccati ai nostri sepolcri non ci metteremo mai alla ricerca della speranza. E a volte è proprio così: siamo così attaccati ai luoghi del nostro lamento, siamo così impigriti nella fede, da non avere più quello slancio per cercare dove hanno posto il Signore.
Ora perciò è il tempo di lasciare andare le nostre pietre tombali: non metterci più una pietra sopra, ma affronta la vita, forse proprio in quello che credevi un sepolcro, oggi fiorisce la speranza!
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