Relazioni

Una vita a tempo pieno e il bisogno di solitudine per crescere

17 Novembre 2018

Per cosa stiamo formando le nuove generazioni?

È notizia di qualche giorno fa: il Movimento 5 stelle vorrebbe avanzare la proposta di estensione a tutte le scuole primarie del tempo pieno. Un provvedimento che sicuramente può trovare il consenso di famiglie in cui il carico di cura dei più piccoli diventa inconciliabile con i tempi di lavoro. Già qui qualche riflessione andrebbe fatta politicamente perché, se ci si riempie costantemente la bocca di famiglia e di valori della famiglia, viene da sorridere a pensare che la scelta rispetto a un piano educativo venga fatta più per esigenze di mercato che per interesse dei figli e senza riflettere su ciò che la scuola deve garantire, che non è tanto l’accudimento quanto la formazione, ma il discorso sarebbe davvero troppo complesso per un articolo da web. Restiamo sul discorso scuola.

Siamo andati, politicamente parlando, a “mode” in questo mondo. Le ricordate le tre “i”? Poi la Buona Scuola, ancor prima i moduli, le competenze, domani chissà. In realtà non è dato sapere cosa attenderà, al conseguimento dell’età adulta, questi bambini. La società evolve troppo rapidamente e sarebbe folle cercare di dare una risposta “tecnica”. Chi in passato ha provato a pronosticare i bisogni del mercato dall’anno x ai successivi dieci ha quasi sempre fallito miseramente. Perché le competenze tecniche richieste cambiano e, spesso, proprio la realtà stessa in cui viviamo.

La società di oggi ci impone alcune cose: la flessibilità certo, lo spirito di adattamento, ma anche la capacità di stare soli, il saper fronteggiare le frustrazioni, l’attitudine (e la competenza necessaria) alla formazione continua. Esistenzialmente si parla di resilienza – una sorta di omnicomprensiva capacità di adattamento al reale – che altro non è, intesa fuori dal contesto professionale, che la coscienza di essere qualcuno e qualcosa a prescindere dal resto.

Non possiamo più essere il lavoro che facciamo (Quale sarà? Per quanto tempo?), né la nostra capacità di spesa (che tanto ci ha definiti nei decenni scorsi attraverso gli “status symbol”), nemmeno il nostro riconoscimento sociale (ancora strettamente connesso a queste due realtà). Cosa possiamo essere allora?

Possiamo essere i nostri interessi, le nostre relazioni. Poi anche tutto il resto, ma in primis questo. Sono i due elementi che permettono, anche in situazioni di “crisi”, di resistere. Si tratta però, a differenza di quanto si potrebbe credere, di competenze complesse e per nulla innate. Competenze che la scuola e le cosiddette “agenzie educative” spesso non stimolano. Questo non per disinteresse o cattiveria, sia chiaro, ma perché manca il tempo e soprattutto implicano attività non sempre compatibili con i ritmi del sistema educativo. La scuola ci insegna molte cose, oltre alle competenze nei settori specifici: la socialità, il rispetto delle regole e delle scadenze, l’impegno, l’organizzazione… Competenze, se ci pensiamo, per nulla all’ordine del giorno nella società di oggi. Ciò che non ci può insegnare, però, è altrettanto importante per “sopravvivere” nel mondo esterno e questo tipo di sapere si può sviluppare solo nello spazio “libero” e vuoto. Educati a stare, per la maggior parte del tempo, in compagnia e in contesti in cui vige un certo ordine e certe prassi, i ragazzi si trovano in età adolescenziale e adulta a confrontarsi con qualcosa di molto diverso e spesso si trovano spiazzati. L’esempio più banale riguarda lo studio: per quanto non possa essere generalizzato (come mai si deve fare) il discorso, tanti ragazzi oggi arrivano alle superiori senza sapere come studiare da soli o come svolgere da soli compiti e ricerche assegnate. Eppure è quello che viene richiesto dal mondo esterno dove, anche se si lavora in “team”, il proprio compito specifico deve essere gestito in autonomia e senza qualcuno che ti dica, ogni cinque minuti, cosa fare e come organizzarti. Come si impara? Studiando da soli e abituandosi a organizzare il tempo di studio in modo autonomo, sapendo di dover rispettare delle “consegne”.

Altra questione: la capacità di stare soli. Nessuno nasce desideroso di stare solo, perché siamo animali sociali. La scuola e le altre realtà educative ci insegnano come stare bene in gruppo, migliorando la nostra capacità relazionale e il nostro essere “civile”. Chi ci insegna però a stare soli? Ancora una volta i tempi vuoti. Quella che in apparenza può sembrare una cosa banale (“A star soli non si impara, ci si sta”) non lo è affatto e da questo nascono molte delle relazioni (siano di amicizia, amore, semplice conoscenza) disfunzionali di oggi. Persone che, non sapendo gestire la solitudine, la vivono costantemente come un abbandono. Con tutta la sofferenza, personale e sociale, che ne consegue. E come si sopravvive alla solitudine? Nessuno si augura di trovarsi, controvoglia, a vivere periodi di solitudine, ma – in caso accada – quello che salva sono gli interessi personali. Conoscerli, ancor prima che coltivarli, è il miglior antidoto, perché ci permette di stare bene (o almeno decorosamente) anche solo con noi stessi. Che si tratti di giocare a un videogioco, fare una passeggiata, leggere o costruire un modellino, l’interesse personale è, prima di tutto, qualcosa di individuale che nasce e cresce in relazione a sé stessi. Poi può essere condiviso, stimolato dal dialogo con altri appassionati, accresciuto con corsi e incontri, ma vive benissimo anche di vita propria. Questi interessi si possono scoprire a scuola certo, pensiamo alla lettura ad esempio, ma in larga parte si scoprono per conto proprio. Nessuna scuola (per ragioni di tempi, spazi, programmi) potrà mai pensare ad una proposta diversificata per ciascun alunno nel tempo pieno ed è giusto che sia così.

La scuola infatti deve formare i ragazzi, dare a tutti, a prescindere dal loro stato sociale, dalla loro provenienza famigliare o culturale, dalle loro possibilità di “partenza” un’istruzione. L’omogeneità dei programmi scolastici permette a ciascun bambino, dal centro di Roma all’ultimo paesino sperduto fra i monti, di conoscere e imparare le stesse cose che conoscono e imparano gli altri bambini italiani. Questo è il senso profondo della scuola pubblica: dare a tutti le stesse possibilità.

Poi arrivano le differenze, in alcuni casi faticose da gestire (chi può permettersi il corso di tennis e chi no), ma comunque formative: perché nel mondo reale non siamo tutti uguali e i bambini per primi lo sanno. Le differenze però, lo insegnano anche a scuola, sono anche un valore quando non implicano disparità ma varietà. Allora un bambino che si appassiona a uno sport nel suo tempo libero non ha minor “ricchezza” di quello che dipinge statuette di super eroi, quello che legge non è “migliore” di quello che colleziona modellini di automobili. Per scoprire cosa appassiona però occorre un tempo non condiviso, ma esclusivo, un tempo non mediato da qualcuno (sia un educatore, un maestro o un genitore), ma autogestito (senza che questo implichi l’abbandono di minore!), che può trascorrere anche in compagnia, ma in una compagnia di elezione. Dire no ad una attività che si è provata e non piace, dire no alla compagnia di qualcuno che non vogliamo coltivare come amico non è nulla di sbagliato, ma non è cosa praticabile nel tempo scolastico, durante il quale dobbiamo svolgere (giustamente) attività omogenee e di gruppo. Allora serve altro.

Uno spazio che non sia quello della classe, né quello del corso pomeridiano, nemmeno quello condiviso con i propri genitori: occorre una “stanza tutta per sé” per far crescere quelle competenze che solo l’assenza di rumore può stimolare e che, nel caos del mondo di oggi, possono tornare utili per sapersi ascoltare. A prescindere dal mondo che sarà quando, chi oggi incomincia il percorso, finirà la scuola.

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