Relazioni
Ritorno a Zurigo
Avevo messo in auto la mia borsa, la chitarra e il mio giaccone preferito, che avrei perduto quella notte, ancora oggi non so bene come. Christiane scese fuori e mi venne incontro, con quel suo sorriso sghembo che ho tanto amato. Come sempre mi abbracciò di fianco, appoggiando il viso sulla mia spalla, e mi baciò sul collo dicendomi: «Ma come ho fatto a meritarti?».
Mi piacciono le frasi a effetto, specie se dette con il ritmo appropriato e nel momento giusto. Non m’importa che siano vere; mi basta che ci siano state e che abbiano costruito, negli anni, una melodia della mia malinconia, l’interpunzione di quella che Mara chiamerebbe il mio processo di presa di coscienza e che mamma invece avrebbe chiamato “finalmente diventi adulto”. E in quella sera di Erfurt, con l’odore di resina gonfia che emanava dalle file di alberi della Schillerstrasse, dovevo davvero diventare adulto alla svelta, o comunque fingere bene di esserlo, perché stava finendo l’ennesimo sogno tramutato in incubo.
Per chiudere come si deve avrei dovuto guidare quasi settecento chilometri, di notte, già stanco morto com’ero. Salendo in auto e aprendo il finestrino Christiane disse: «Mi dispiace». Ma lei ha sempre mentito malissimo, sicché non 20 mi venne una risposta e riuscii a fare solo un cenno. Quando si esce da una storia bisogna farlo in silenzio, in punta di piedi, non visto: da oggi in poi, pensai, il mio entusiasmo, la mia passione, il mio dolore, appartengono solo a me, non ne avrai più nemmeno una stilla.
Ma non te lo posso dire, altrimenti sembra la mossa di un giochetto in cui perdono tutti, e io in particolare perdo la posizione di “allegro e intelligente”. Quando passai accanto allo Steigerwaldstadion e intuii a destra la casa di coloro che, nonostante loro stessi avrebbero dato volentieri il sangue per questo, non sarebbero mai stati i miei suoceri, ero sereno e meno spossato di quanto temessi, sicché sulle curve che portavano all’autostrada dovetti fare attenzione a non accelerare troppo e beccarmi una multa. Erano tempi in cui anche dieci marchi – cinque euro, più o meno – erano davvero una cifra importante.
* * *
Ufficialmente me ne ero andato già più di un anno prima. Avevo lasciato la Comune di Haina in cui avevo finto di fare il contadino e in realtà avevo collaborato con Bodo Ramelow (che molti anni dopo sarebbe diventato il Presidente della Turingia) in seno alla Commissione d’Inchiesta Federale sulla Riunificazione, o più precisamente in una sottocommissione che analizzava l’armonizzazione del sistema bancario dell’Est con quello dell’Ovest.
Un lavoro appassionante di cui nessuno saprà mai nulla, perché venne immediatamente secretato, denigrato, dimenticato. Ma quella notte non potevo ancora prevedere nulla di tutto ciò; quindi avevo deciso di usare lo slancio del mio entusiasmo per tornare a Zurigo e rimettermi a scrivere, tanto Christiane – di cui ero inutilmente innamorato – mi aveva chiaramente detto di nì, il che già allora aveva smesso di bastarmi.
A Zurigo avevo ricominciato non solo a scrivere, ma anche a respirare. Constantin ed io andavamo a teatro, facevamo la fame nera, corteggiavamo ragazze cretine e di cui oggi nemmeno ricordo i visi, scrivevamo cose divertenti e leggiadre, oppure inchieste pesantissime e intrise di moralismo infantile.
Insomma, eravamo neonati e felici. Uno stato di relativa beatitudine che si incrinò quando mi misi a scrivere racconti brevi che venivano pubblicati settimanalmente sulla WochenZeitung e ricominciai quindi a scavare là dove non dovrei mai mettere le mani, ovvero tra i miei sentimenti.
Scrissi un racconto sulla notte in cui persi la verginità. Di come lei, più grande di me, nuda e sotto il lenzuolo, aspettasse innervosita che io passassi al dunque, guardando con disgusto i miei mutandoni – tutto tranne che sexy. E di come io dovetti farmi coraggio per toglierli e passare all’azione. Io, imbarazzatissimo, al momento di svelare la mia potenzialità idraulica, ero totalmente privo dell’entusiasmo che si supponeva che avessi, e lei disse: «Oh mamma, tutto qui?», dacché il mio proposito di chiudere col sesso per sempre quella sera stessa, per dedicarmi alla coltivazione del baco da seta su Marte.
Scrissi di questa amenità e vinsi un premio per il miglior racconto omosessuale dell’anno. Spronato da questo successo scrissi La menzogna di Dedalo, che venne inserito nell’antologia dei migliori racconti svizzeri, stampato come ultimo e migliore della raccolta. Insieme a questo riconoscimento arrivarono dei soldi (benedetti) e un invito per un reading di fronte a un sacco di gente.
Naturalmente ne scrissi a tutti, anche ai miei amici di Erfurt, pieno di orgoglio e stupefatta incredulità. La sera stessa mi telefonò Christiane, che non sentivo da quasi un anno, e mi chiese se mi avrebbe dato fastidio se lei fosse venuta a vedermi. Scoprii così che quando ami una persona quell’amore magari si trasforma, ma può resistere sotto la brace per un periodo indefinito, e quindi risposi che sarei stato felice della sua presenza.
Allora non conoscevo il significato clinico del termine “bipolare”, quindi venni colto di sorpresa da ciò che accadde: nel momento stesso in cui Christiane aveva annunciato il proposito di venire a Zurigo, le sue dinamiche si erano messe in moto per impedirglielo. Il suo compagno glielo proibiva, i ragazzi della Comune si rifiutavano di prestarle un’auto, ai suoi genitori non lo poteva dire per evitare che si facessero strane idee su noi due. Insomma, la sera dopo ritelefonò annunciando che non sarebbe potuta venire per cause di forza maggiore.
Le dissi: «Non vali nulla, non esisti, non hai volontà, sei solo una larva». Sicché la settimana successiva al ricevimento in cui avrei letto il mio racconto ci andai con Veronica, una donna intelligente e carina con cui uscivo in quel periodo, di cui sono tuttora amico.
C’era tutta la Zurigo intellettuale che conta, in una di quelle cerimonie in cui tutti sono vestiti come al funerale di Al Capone e si sciroppano la roba che beveva Brigitte Bardot nei film, facendo finta di fare finta ed essendo invece tutti onestamente catorci di fighetti bavosi. Io non c’entravo proprio nulla, ma speravo comunque che da quella sera avrei fatto parte di cotanto splendido jet set.
Inutile dirvi che quando salii sul palco vidi Christiane era seduta in prima fila. Aveva viaggiato in autostop, dormendo una notte a metà strada nemmeno lei sapeva dove, ed era arrivata a Zurigo nel primo pomeriggio, nascosta dai nostri comuni amici per fare in modo che godessi il colpo nella sua pienezza. E infatti così fu.
Non so raccontarvi di quella notte – del dopo, intendo dire. La passammo abbracciati sul balcone a dire scemenze. Come sempre non le misi le mani addosso ed attesi inutilmente che lei facesse la prima mossa. Ma dopo anni di tira e molla lei mi sapeva a memoria, e quindi non ne trasse alcuna conclusione.
Seppi che era incinta, perché aveva mollato il cretino di compagno che aveva e lui aveva elemosinato un’ultima notte, in cui appunto eccetera eccetera. Seppi che voleva lasciare la Comune e, se possibile, anche la Germania. Le dissi che stavo trattando per un posto di lavoro a Roma nella redazione del settimanale Avvenimenti; mi guardò con l’espressione incredula di chi ha appena visto con i propri occhi il mostro di Loch Ness uscire dall’acqua e chiedere una granita al bar.
Restammo d’accordo che sarei tornato a Erfurt per la grande festa di mezza estate e che poi io, lei e la sua figlioletta Clara (che aveva quasi quattro anni) saremmo andati a vivere insieme a Roma. Le pagai un treno per tornare a casa, mentre io partivo per l’Italia.
* * *
A quei tempi la A4 non era quella pista da corsa che è divenuta oggi nel tratto tra l’Hermsdorfer Kreuz e l’aggancio con la A7. Nei pressi di Eisenach si guidava in mezzo al bosco e abbastanza lentamente. Niente autogrill fino al confine con l’Assia, quasi due ore di viaggio nel nulla, perché dopo una certa ora di auto in giro non se ne vedevano più.
Procedevo spedito, pieno di rabbia, ripensando mille volte alle scene degli ultimi giorni e immaginando ogni volta di riviverle usando altre frasi, altre reazioni. Ma la verità è che tutte le cose erano già state decise da tempo immemorabile, e non importava quanto io potessi essere brillante, intelligente, scaltro: la fine sarebbe stata sempre la stessa. Da sempre nella mia vita le uniche storie che funzionano sono quelle in cui non ho nulla da chiedere, in cui non spero nulla, non mi aspetto nulla, non mi importa nulla.
Inseguire una che ti ha detto nì (ovvero un “no” ufficiale confuso da atteggiamenti che parrebbero dire esattamente il contrario) è la cosa peggiore che si possa fare. Una così ti usa, perché essere usato è esattamente ciò che le chiedi. Lei crederà per giunta di essere stata sempre chiara e onesta, perché non appena ti trasformi in mendicante tutta la tua forza è svanita per sempre, e non si rimonta più, come diceva Gaber: non si rimonta più, qualunque cosa tu faccia non si rimonta più, e rischi di divenire un consulente di coppia (la sua) e persino uno sponsor finanziario.
Insomma, si allunga solo l’agonia e si forniscono via via nuovi argomenti per far pensa[1]re alla tizia in questione di aver avuto ragione e di averla scampata bella tenendosi a debita distanza di sicurezza. Mi vergogno di dire per quanti anni io abbia inseguito Christiane, quante volte io abbia accettato che lei facesse un altro giro con qualche incredibile coglione, che per giunta le faceva male, pensando che prima o poi avrebbe raggiunto un grado di consapevolezza sufficiente per …
Per che cosa, sinceramente non me lo ricordo più troppo bene. Una sega, altro che consapevolezza. Scusate la rabbia e la volgarità. Col tempo mi accorsi che mi usava per riuscire a sopportare il coglione di turno, che le davo autostima laddove lei non ne aveva. Poi arrivava il botto, e il coglione successivo naturalmente non solo la riempiva di attenzioni, facendola sentire una regina, ma aveva dalla sua la novità e tutte le proiezioni di cui ciascuno di noi si serve per far finta che il prossimo amore sarà migliore del precedente, senza che si sia fatto nulla per capire i vecchi disastri e le loro cause. E non è che io sia migliore, perché questo genere di storie continuano ad accadermi a intervalli regolari. A ciascuno il suo, o meglio la sua responsabilità.
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A Roma mi ci vollero tre giorni per risolvere positivamente la questione. Trovai un appartamento minuscolo e bellissimo a poche decine di metri da piazza Navona, in via del Governo Vecchio, soleggiato, già arredato e con un giardinetto stupendo. Incontrai una Paola, con cui ero stato lì lì per iniziare qualcosa, e passai qualche sera di sincero imbarazzo. Naturalmente non concretizzai nulla e fu meglio così, dato che lei oggi è felice mamma di due splendidi ragazzini e vive con un uomo perbene.
A Erfurt trascorsi una settimana chiuso in sala prove con Carsten, Steffen, Wolfram e gli altri. La festa di mezza estate, nella Comune di Haina, era ed è tuttora un avvenimento grandioso e magnifico. Ogni anno il concerto dev’essere in qualche modo indimenticabile, superarsi di volta in volta.
A quei tempi Carsten, Steffen ed io giravamo la Svizzera e la Germania suonando vecchie canzoni politiche, molte delle quali ormai erano prive di contesto e quindi buffissime, vero motivo per cui per cui funzionavamo e ci chiamavano a suonare dappertutto. In quel modo recuperai a 35 anni una vocazione da musicista che non avevo assecondato da ragazzino (e probabilmente era stato meglio così).
Ma le tensioni tra noi tre erano veramente insopportabili; per cui dopo poco il divertimento era andato a farsi benedire e avevamo smesso di suonare. Quindi quel concerto alla festona di mezza estate di Haina diventava improvvisamente una reunion e ci tenevamo particolarmente a fare bella figura.
Ci riuscimmo, ve l’assicuro. Jörg cantava Mir geht’s gut, un brano struggente sulla solitudine, con un’ironia e un affetto feroci e commoventi. Salirono con noi sul palco altri amici, che non avevano mai cantato prima, e sorpresero tutti: la nostra versione di una ballata sulla primavera di Manfred Krug fu un’apoteosi.
Christiane l’avevo vista per cinque secondi nella confusione terribile dei preparativi. Eravamo d’accordo che saremmo partiti insieme la mattina dopo la festa. Ci eravamo dati un bacetto; poi la massa degli ospiti aveva cominciato ad arrivare, c’era chi pioveva già la mattina a colazione e non c’era tempo per fare o dire nulla. Quando toccò a me, cantai guardandola dritto negli occhi. Cantai Als ich fortging di Dirk Michaelis, naturalmente, innalzata di una quinta in modo che la mia voce fosse chiara e squillante. Lei era tutta rossa in viso. Carsten e Steffen dissero che erano talmente commossi da avere la pelle d’oca.
Succede. Succede che per una volta, per qualche minuto, ognuno di noi sia in uno stato di grazia in cui una data cosa ti riesce come non ti è mai riuscita prima e non riuscirà mai più in seguito – e per me fu quella volta lì. Io e Christiane ci baciammo dopo, nel corridoio; poi andammo fuori al falò, insieme agli altri. E ballammo, e cantammo, e io fui incredibilmente felice e stupefatto.
La mattina dopo Clara mi venne incontro con il suo zainetto sulle spalle, pronta per partire, e mi disse che la mamma era arrabbiata con me, che era meglio che andassi a parlarle subito. Trovai Christiane nella sala delle docce che rideva isterica insieme ad altre ragazze della Comune. Me ne disse di tutti i colori: che l’avevo ingannata, che a Roma non avevo né un lavoro né una casa, che lei non aveva mai detto che sarebbe venuta a vivere con me, ma solo che mi avrebbe aiutato a fare il trasloco, e che mai in tutta la vita lei aveva pensato che tra noi due potesse esserci altro che una fraterna amicizia, e che lei era venuta a Zurigo a vedermi solo perché io le avevo detto che se non fosse venuta le avrei tolto il saluto.
Ero lì, in un angolo, coperto dal vapore, con Christiane che gridava, mentre le altre ragazzine ridevano e commentavano la mia imbecillità. Non era la prima volta e probabilmente non è stata l’ultima in cui mi sono trovato in una situazione simile; ero come congelato, incapace persino di arrabbiarmi. Alla fine uscii dalla stanza, salutai Clara che mi guardava indecisa, presi la mia roba e me ne andai a Erfurt, a dormire qualche ora da Carsten prima di intraprendere da solo il viaggio di ritorno.
Christiane ci raggiunse circa due ore dopo, voleva spiegarmi che mi perdonava. Oggi so di cosa, per averla costretta a prendere una qualche decisione in una vita passata a subire i fatti senza mai scegliere. Ma allora non capivo più nulla, sentivo solo la ben nota lama rovente che mi tagliava via il cuore e mi chiudeva la gola. Anche se continuammo a essere “amici” per altri anni, la storia finì lì. Finì insomma ciò che Christiane stessa aveva definito l’illusione romantica, e io pensai (stolto) che una cosa simile non avrebbe mai più potuto ripetersi.
Restava solo un viaggio da fare: per Zurigo o per Roma. Ora toccava a me decidere quale fosse la padella e quale la brace.
* * *
Ero annichilito dalla stanchezza. Tutte le emozioni delle ultime ore mi stavano giocando un brutto scherzo, sicché da Würzburg in poi viaggiai con il finestrino aperto per avere il vento sul viso. Mi fermai a un autogrill in cima alla collina e poi lasciai la A3 per avviarmi lungo il tratto più terribile, la A81 – interminabile e desolata – che mi avrebbe portato oltre Stoccarda, a un passo dalla Svizzera. Nella mia testa non c’era altro che confusione, indecisione sulla scelta che avrebbe condizionato tutta la mia vita.
Tornare a Roma, per giunta da solo, mi sembrava una sconfitta. A Zurigo ero un giornalista affermato e poi avevo un conto aperto con i miei colleghi, che per anni mi avevano considerato una mezza calzetta e ora erano stati costretti a riconoscere il fatto che fossi una delle firme di punta, uno i cui articoli venivano letti da tantissima gente, che riceveva lettere da persone emozionate e piene di gratitudine.
A Roma avrei dovuto ricominciare tutto da capo e soprattutto da solo, in un posto in cui non credevo, in una nazione di cui disperavo, a migliaia di chilometri dai miei amici di Germania e nel niente che era rimasto delle mie frequentazioni originarie. Circondato insomma dalle macerie di un passato remoto cui nemmeno appartenevo più.
Tutto sommato la scelta era ovvia, soprattutto sperando di avere una chance per ricostruire un rapporto con mia figlia, una ferita così aperta e dolente da non darmi la forza di ragionare. In ogni caso avrei dovuto ricominciare dal nulla in cui era naufragata la mia vita affettiva. Per quella un posto valeva l’altro.
Durante il viaggio, ovviamente, non presentii nulla del carosello che nel giro di un paio d’anni avrebbe trasformato la mia vita sentimentale in un ottovolante di successi superflui e immane indifferenza. Non sapevo nemmeno che ben presto sarei tornato a vivere in Germania, apparentemente guarito, e avrei guidato una radio libera sulla scia di un grande ed esaltante salto di qualità professionale. Avrei avuto una mia trasmissione – Die Böse Banane, la banana cattiva – e avrei conosciuto tutti i grandi musicisti tedeschi che ammiravo, in una nuova avventura di un nuovo me nella tripla pista di un nuovo circo equestre.
Oltrepassai l’uscita per Ilsfeld, a metà strada tra il nulla e il niente. Ebbene, direte voi? Ebbene tutto! Tornai a marcia indietro fino all’uscita (tanto ero solo come un extraterrestre sulla A81) e presi per Neckarwestheim. Da lì per Bönnigheim. Mi illusi di essere il primo italiano che si fosse mai addentrato in quella che i Die Sterne avevano cantato come Unland, la Non-Terra. E invece eccola lì, la pizzeria Bella Napoli, in mezzo all’unica strada di un villaggio di poche centinaia di Teutoni burini e ruspanti, accidenti.
Ma tanto non ero lì per quello. Ero lì per Tripsdrill, ovvero Località La Trottola, dove oggi è stato costruito un Luna Park, ma allora c’erano solo alberi e panchine di legno. Ti ricordi, Christiane? Ci eravamo fermati lì a fare merenda perché il nome era così buffo. E facemmo finta di dare da mangiare le molliche a degli scoiattoli immaginari. Tu squittivi ed io ridevo, finché dal bosco era uscita una torma di uccelli che avevano cambiato la nostra scena di calma in un tornado.
Ti eri stretta a me, ridendo come una pazza, e io ti amavo, e tu dicesti che se non ci fossi stato io, nella tua vita, avresti disimparato il significato della parola “ridere”. Milioni di anni più tardi avrei rivisto quella stessa risata sul viso di Mara, e di nuovo avrei equivocato, e di nuovo avrei pensato che forse, dopotutto, non avevo sbagliato ad arrivare fin laggiù. E di nuovo mi fu spiegato che – come dice Karl Marx – gli amori impossibili non creano plusvalore, quindi non sono amori, rallentano l’emancipazione della classe operaia e allungano a dismisura i tempi di realizzazione dell’utopia socialista.
Con questa responsabilità controrivoluzionaria sulle spalle, quel giorno mi misi a giocare con un bambino altrui che cercava di costruire un castello di terra e non riusciva a sollevarla con la paletta. Christiane invece raccoglieva fiorellini. Due cretini.
Arrivai al prato che c’era una luna enorme e un freddo paralizzante. Uscii dall’auto e mi misi ad evocare il fantasma di me stesso. Inutilmente. Già non c’ero più. Nel momento in cui un istante diventa ricordo, esperienza, siamo già morti e resuscitati, siamo di nuovo pronti a fare guai. O ad esserlo, guai.
Tremavo, non ero in grado di guidare. Così rimasi lì e mi addormentai. Mi svegliò all’alba un poliziotto. Mi disse che stavo facendo qualcosa di proibito. Gli dissi che avevo avuto un colpo di sonno in autostrada e che avevo inutilmente cercato un Gasthaus, un alberghetto di campagna. Sorrise e mi indicò dove far colazione. Una tazza di tè e una michetta.
* * *
E di colpo le lacrime. Un torrente di lava, misto a saliva, moccio, anima, tosse, angoscia, sudore e brividi di febbre. Un fiume inarrestabile e portentoso, il cuore che vomita rabbia, soprattutto tanta tantissima rabbia. Rabbia per tutti i miei sbagli, per la mia incapacità di capire gli altri, per il mio essere alieno, per il mio essere sconfitto in un contesto in cui mi era stato insegnato che non dovessero esserci né vincitori né vinti.
Continuavo stupidamente a elencare: ho fatto questo, e poi questo, e non è bastato. Poi ho fatto questo e questo, e questo ancora, e ancora non è bastato. Non basta mai. Mentre una serie di persone disgustose e cattive, gente che disprezzavo allora come oggi, raggiungeva senza sforzo tutto ciò che per me era proibito. Nessuna spiegazione, solo un inspiegabile embargo sentimentale contro di me, per cui potevo “avere” ogni donna che non mi interessasse, e nessuna di cui mi innamorassi.
Dovevo avere in me un errore chiave, fondamentale, sconcio, irreparabile, purulento, un marchio indelebile, un’onta non più lavabile. Il poliziotto di prima, richiamato dalla barista, mi venne vicino e mi chiese se fossi in grado di ripartire o se avessi bisogno di un medico, di un prete, di un qualche aiuto. Rosso di vergogna andai a lavarmi la faccia e mi rimisi alla guida dicendo addio a Tripsdrill, che non ho mai più rivisto e nemmeno ho mai più sentito il bisogno di rivedere. Tanto il mio fantasma continuava ad albergare dentro di me. Non potevo sfuggirgli, ma non dovevo nemmeno più inseguirlo.
Oggi a quel viaggio disperato per Zurigo ci ripenso con piacere, perché ha avuto un’intensità così straordinaria. In una notte sputai il nome di Christiane via dal mio cuore, per confondere il suo viso con quello di donne che erano venute prima e che sarebbero venute poi. Perché in storie del genere la quantità di energia e passione che ci metti dentro per ottenere la benché minima reazione è talmente grande, che alla fine l’unica cosa che puoi sperare di ricevere in cambio è il simulacro di ciò che tu stesso avevi versato nel buco nero delle paure altrui: altre paure, a profusione, e mancanza di chiarezza, anaffettività, paranoie, e chi più ne ha più ne metta.
Due settimane più tardi ero a letto con una tale Judith. Non ricordo né il suo viso né la sua voce, solo che mi mordeva le labbra e che mi piaceva che lo facesse. Finalmente animale, ero pronto per Zurigo e per il resto del mondo. Grrr
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