Relazioni
Quel tunnel di violenza che chiamiamo amore (in cui finiamo tutte prima o poi)
Negli anni ho intervistato decine di donne vittime di violenza. Ogni volta che parlavo con una di loro – e le loro storie sembravano sempre seguire un copione che già conoscevo, eppure c’era tutte le volte qualcosa di tragicamente differente e di dolorosamente drammatico che mi sconvolgeva – mi domandavo: ma come è possibile? Lo ammetto. Facevo parte del gruppo di quelle che si chiedevano, fino a consumarsi, come mai quelle donne apparentemente intelligenti, capaci, sicure di sé potessero entrare nel tunnel che tutte battezzavano prima come amore, dunque come amore malato.
Mi tormentavo sul perché stessero con uomini che le umiliavano psicologicamente, facevano di tutto per farle stare male, a volte (molto spesso a dire la verità) addirittura le picchiassero. Non capivo come fossero state in grado di andare ad abitare una prigione. Poi – diverso tempo fa, e in modo trasversale – mi ci sono trovata dentro anche io. Senza accorgermene anche io – che mi sentivo immune, immersa nella mia spocchia e nella mia presunzione di donna che si salva da sola; convinzione paradossale e completamente letale – mi sono risvegliata dentro un corridoio arredato da un uomo: ero affogata in quello che credevo fosse amore, e invece era solo un amore malato. Un amore scandito dalla violenza psicologica, dal rancore, dalla rivalsa. Un rapporto che niente aveva a che vedere con l’affetto, lo stare bene insieme, il condividere i sentimenti e un pezzo di vita, e che ruotava intorno alla distruzione, alla vendetta, alla possessività, a gesti eclatanti e a minacce (una su tutte: se non torni a casa, ti spacco tutto quello che c’è dentro).
Ho tenuto questo pensiero nascosto a me stessa per anni – soprattutto quando quella prigione abitavo – con la convinzione che non potesse accadere a me, che fosse soltanto un momento, che non dovevo esagerare perché capita a tutti di litigare, di avere un periodo più buio, di avere uno scatto di rabbia e di fastidio… E poi anche io, anche io non avevo un carateraccio come tutti mi ripetevano? Non scontavo la pena che per una donna equivale alla crocifissione: non ero aggressiva, egoista, prepotente? Più vedevo lui soffrire, più lo ritrovavo moribondo nel suo dolore, più pensavo che fosse giusto aiutarlo (economicamente, psicologicamente, temporalmente). Quel rapporto aveva tirato fuori da me una parte che non conoscevo (e che ancora oggi stento a comprendere): l’attitudine della crocerossina. Ero in missione, eppure non me ne rendevo conto (e, soprattutto, nessuno mi pagava lo stipendio).
Non so per quale associazione di pensieri – forse perché ho finito la mia disintossicazione da quel rapporto malato, forse perché l’empatia ti obbliga a vedere il mondo indossando i suoi panni -, ma penso a quel tunnel ogni volta che leggo di un femminicidio. Penso a quanto sia facile trovarcisi dentro, e non avere percezione della realtà, anzi giustificarla quella realtà. Giustificarla come se fosse cosa normale, se non addirittura qualcosa da scontare per qualche segreta colpa (un carattere difficile, un tradimento passato, la sindrome dell’impostore, ecc.).
Trovarsi in una situazione che non si ha le facoltà di decifrare equivale alla distruzione. Per quanto la formazione dell’individuo sia la cosa più difficile che si possa affrontare, è dalla società – dunque da tutti noi – che dovrebbe partire l’educazione al rapporto, l’istruzione all’amore (proprio e di coppia) e alla costruzione di sé.
Ieri, leggendo la storia di Letizia Primiterra, vittima a Ortona della violenza omicida del marito insieme all’amica Laura Pezzella, ho pensato proprio a questo. A quel tunnel che uno si trova ad abitare e da cui non sa uscire. E’ una trappola da cui non ci si riesce a salvare – nel mio caso la salvezza ha avuto i confini di un’altra donna, che lo ha portato fortunatamente lontano da me, sciogliendo quel gorgo di sofferenza e di sudditanza psicologica in cui ero precipitata -, ma a volte capita di trovare la forza da soli. Ed è quello che aveva fatto Letizia. Lei si era rivolta al centro antiviolenza di Ortona, la sua città. Aveva denunciato le violenze subite dal marito, eppure le minacce erano state sottovalutate. Liquidate come qualcosa di non interessante, di non veramente preoccupante. Ed è per questo che noi, oggi, stiamo scrivendo dell’ennesimo omicidio. Continuando a riflettere sempre secondo i soliti, inutili, schemi. E ci ossessioniamo – almeno per oggi, forse per domani, sicuramente nello stesso modo in cui abbiamo fatto in passato e in cui faremo in futuro – su quello che avremmo potuto fare, solo se… E intanto la rete – e i giornalisti, che in primis vomitano insieme al racconto della cronaca scatti personali di Letizia, quelli presi dalla sua vita raccontata da Facebook che farebbe bene a rimanere privata, e non ad assecondare il disgustoso voyeurismo che tutti accomuna – sommerge la storia. La sommerge con i dettagli. Con i rancori. Con le paure. Con i se. E dimentica quello che tutti dovremmo e potremmo insegnare: la distinzione fra un rapporto basato sul cuore e uno che è invece esercizio di possessività, la differenza fra un sentimento vero e costruttivo e uno distruttivo e mortale. Perché la storia di Letizia, è la storia di tutte noi che siamo (o siamo state) dentro un tunnel. Convinte che fosse amore. Quando, invece, era tutt’altro.
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