Relazioni
L’amore ai tempi della collera
“Sei la mia schiavitù sei la mai libertà
Sei la mia nostalgia di saperti inaccessibile
Nel momento stesso
In cui ti afferro” (Hikmet)
La settimana scorsa nel cuore della Napoli storica, presso il complesso monumentale di San Domenico Maggiore, si è svolta la seconda edizione della “Notte dei filosofi” organizzata da “Filosofia fuori le mura”. Una serata rivolta al pensiero e agli stati d’animo in scena con le loro trasposizioni.
Ascoltare il filosofo Giuseppe Ferraro che parla di amore e di filosofia proprio quando alla ribalta delle cronache si moltiplicano i casi di donne che hanno subito abusi fino a perdere la vita, sembra anacronistico. Anacronistico in un tempo in cui l’amore dell’altro non è che l’amore di sé per cui se non ci ritorna indietro meglio soffocarlo, bruciarlo, finirlo in qualche modo insomma. Se Hannah Arendt parla della banalità del male, Ferrara parla della gratuità del bene. Sostiene che ha a che fare con ciò di cui si è grati.
Penso, allora, che sia difficile raccontare l’amore, certamente ciascuno ne dà un’ interpretazione diversa, la definisce a suo modo secondo aspirazioni, gusti, esperienze. Tutti converremmo sul fatto che non c’entra nulla con la sofferenza, lo svilimento, eppure pochi sono quelli che non sono passati anche per questi sentieri tortuosi.
Chi non ha trovato il suo carnefice? C’è anche un’ampia letteratura a ricordarci che l’amore non è sempre quel sentimento idilliaco che ci infonde serenità. Persino il linguaggio ne enfatizza la sua natura contraddittoria e paradossale: l’amore rende ciechi, l’ amore è una prigione o una malattia da cui non si vorrebbe guarire.
L’amore è soprattutto degli amanti, non si contratta, non si firma, non si ferma. Non ha tempo l’amore, lo ingloba, lo supera. Proprio come i Greci non avevano una parola per nominare il tempo, ne avevano diverse. Tra queste “Skopos” indicava “ colui che osserva e sorveglia”, così come “l’oggetto su cui si fissano gli occhi”. Richiede manutenzione come il più banale degli oggetti d’uso quotidiano, ha bisogno di cure che solo una buona educazione sentimentale può assicurare.
In tal senso, l’unica disciplina che porta nella sua etimologia un’ espressione di sentimento è appunto la filosofia che non è solo amore per la sapienza. Essa racchiude la parola “filia” con cui si intende affinità, amicizia, amore nel senso di avere cura. La filosofia non è un “sapere cosa”, non un “sapere su”, ma un “sapere come”, un “sapere di”.
Erede della cultura greca, la lingua napoletana conserva l’espressione “non sapere di nulla”, “essere insipido”, insapore, quindi, proprio nel definire qualcuno che non suscita emozioni, vuoto.
E’ proprio questo vuoto, questa incapacità di gestire la relazione e la fine di essa, rimandano invece a un tempo ben descritto dalla pubblicità della Sambuca Molinari, un tempo in cui ci si lascia con i messaggini, si comunica con le emoticon. Un tempo dove gestire le relazioni in modo facile non ci abitua alla conclusione delle stesse. Un tempo da fast food dove si preferisce buttare che finire e dove il finire assume sempre più spesso i connotati di una tragedia.
In questo caso la “filia” diventa una liofilizzazione, una deriva del vivere, dove il sentimento si polverizza insieme al corpo che ritorna alla sua nativa essenza
La “filia” o “filo” implica un legame e il legame una somiglianza, l’uno diventa quasi l’altro. Quasi, però, non l’altro. In quel quasi, in quella soglia, in quel limen di accettazione della diversità che implica l’accettazione delle scelte dell’altro, risiede la vita.
Diversamente nel gioco del riflesso degli specchi l’amore è distorto, diventa narcisistica conferma di sé, dipendenza totale.
È pur vero che l’amore conferisce all’altro sempre grande potere, anzi spesso questo è direttamente proporzionale alla profondità di un sentimento che ci rende vulnerabili. Forse la difficoltà di gestione di questo potere quando capita di esserne in balia, di esserne dominati, la voglia di dirottare e dominare anche gli eventi sentimentali in una società che non educa alla sconfitta, costituisce una bomba ad orologeria.
L’eccedenza che è propria dell’amore e che risiede nel senso ulteriore, nel superamento della collaudata misura, non riguarda l’eccesso
Il potere e il domino, infatti, non hanno nulla a che fare con l’amore. Il potere separa le persone che sottomette, mentre la realizzazione di potenza attinente all’amore è liberazione. Né il senso di possesso che recita come un mantra “se non puoi essere mia non sarai di nessun altro”, ha nulla a vedere col sentimento.
Educare all’amore significa educare semmai a un possesso senza proprietà: l’amore si restituisce. E quando finisce e nulla più può essere restituito, bisognerebbe educarsi all’attesa del tempo del dolore creativo, il tempo delle emozioni elaborate, sublimate. Quelle che non impoveriscono, non mortificano, né sono da sfigati, ma ci pongono dinanzi ad un essere umano non qualificabile come macchina in cui la passione, l’amore, non sono riconducibili ad un calcolo di do ut des perché l’amore, come enfatizza l’esilarante scena di “Scusate il ritardo” di Troisi, non è equiparabile a una salumeria
L’amore è un fatto umano e come la vita fluisce, è soggetto a cambiamenti e a volte al termine. Implica perciò uno sforzo, un adattamento, un lavoro del tutto personale. Nell’ esperienza d’amore siamo tutti Adamo e Eva al primo giorno della creazione perché l’esperienza degli altri ci insegna poco, spesso nulla. Non insegnano le storie ascoltate in tv, programmi che ne raccontano le distorsioni. Sicuramente l’ amore, A-mors, è toglimento non realizzazione di morte. Certo siamo nel campo della filosofia, e nella vita quotidiana l’amore è anche le bollette da pagare, i figli da prendere a scuola, una casa da governare.
In realtà, per filosofia bisognerebbe intendere la rieducazione del pensiero. Del resto in “La banalità del male”, la Arendt sostiene la stretta interconnessione tra la facoltà di pensare, la facoltà di giudizio e la loro implicazione morale.
Ignorando standard di natura morale, sociale, legale, la capacità di pensare è quella che consente all’essere umano di stabilire un profondo dialogo con se stesso. Va da sé che questo tipo di pensiero non può essere semplicemente fondato su una logica binaria che implica un si o un no, un bianco e un nero; una logica che ritroviamo nelle trasmissioni a quiz, negli esami di maturità o nei test di ingresso all’università. Perché la vita come l’amore è ricca di sfumature, di sentimenti contraddittori e anche di sconfitte.
Educare il pensiero significa allora ritrovare il tempo interiore dell’ascolto, farsi attraversare dal dolore per aprire un varco alla successiva ricostruzione, lasciando che si insinuino anche i colori della tristezza, quelli del blues. E nella risalita sarebbe utile ricordare che la scala usata nel blues è una scala speciale, costituita da sei note; è proprio quella sesta nota, una nota che sembra sbagliata, a dare al blues il suo sapore blu
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