Relazioni
La trincea del cuore
Il sole limpido e freddo, nella luce piena del pomeriggio. Lo scorso weekend, quello che tutte le feste si è portato via. Sul Corso Vittorio Emanuele facce di tutte le stagioni e latitudini, un avant e indrè sfiorandosi, ignorandosi cordialmente, infilandosi nelle vetrine in pieno saldo, sotto lo sguardo implacabile e assente dei ragazzoni della security in rigoroso total black. Ma più che caccia programmata e avida, pare un cazzeggio animato da vaghe speranze, oltre che spettacolo a cielo aperto. Ogni tot di metri, infatti, si esibisce una forma di artista. Di strada. Una donna non più giovane muove la sua bambola ballerina classica, ed esegue tutto senza nascondersi: sta lì, in piedi, braccia tese a muovere i fili dell’aggraziata marionetta. Poco più avanti un cerchio di persone si forma lento, titubante, intorno a due ragazzi, uno lungo e magro e l’altro affetto da nanismo. Paiono fratelli. Divisi dalla fortuna, indivisibili nella sopravvivenza. Eseguono il loro numero funambolico, brevissimo e struggente. Ai lati del loro palcoscenico fatto di cartoni scocciati al suolo, due cappelli rivoltati. Infilo la mia moneta europea nel più vicino, e riparto verso la scintillante cattedrale grigia. Nel flusso distratto della movida, ondulata come la scopa di una Befana brilla, incrocio un gruppo di persone che cammina addentando il cartoccio da street food: punto la bancarella di legno dalla quale arrivano quei panzerotti. Rallento solo davanti a un mini accampamento, compresso in un angolo di marmi milanesi.
Un uomo dorme con la bocca semiaperta, come un bambino. Ha un bel viso mal rasato, forse quarant’anni. Coperte, cappotto, una sciarpa, si accumulano sotto e sopra di lui, formando un giaciglio da trincea. Alle mie spalle un ragazzo ride, parlando con una coppia di amici; sul momento penso che stia deridendo, umiliando, come ha fatto un qualunque assessore o sindaco di questa onda italiota viscida, meschina; invece no, tutt’altro. Il ragazzo si piega sulla fase diabolicamente REM dell’uomo e posiziona un sacchetto di carta con dentro un panino imbottito a un centimetro dalla sua mano, scolpita nel sonno da una presa rattrappita e dolce. Vuole che appena aperti gli occhi, possa afferrare il dono. E quando finalmente afferro il mio panzerotto, lo mordo con la stessa fame di quell’uomo. La stessa riconoscenza. E la stessa rabbia.
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