Relazioni
La scuola come comunità educante
La scuola è il luogo del tempo supplementare, del tempo protratto, eccedente. È il luogo in cui si costruisce, come un edificio, mattone su mattone il nostro essere persone con gli altri. Non è un luogo facile, è un posto in cui disciplina, attenzione, cura dei particolari sono le strutture portanti di ciò che si edifica. Il pressapochismo, la superficialità sono letali per chi insegna perché gli alunni formano un’idea di se stessi, e del mondo esterno in base a ciò che troveranno difronte ogni mattina, al peso che attribuiamo loro con il nostro atteggiamento.
Spesso in tempi così difficili, in cui la società emargina chi non ce la fa perché è un figlio di nessuno, che premia chi proviene da un ambiente già pieno di stimoli, capacità di interpretare il mondo perché ha strumenti necessari che ne consentono la decodifica, un ragazzo entra in classe indossando un senso di sconfitta. Sente questo luogo come l’avamposto di una disfatta che sarà definitivamente sancita quando varcheranno la soglia del mondo lavorativo e un padrone darà loro ordini, li massacrerà di lavoro, non riconoscendo loro diritti essenziali.
Il mondo inculca loro la sindrome del perdente, di coloro che non riusciranno ad evolversi dal ruolo subalterno a cui sono stati destinati dalla loro nascita legata ad un ambiente fatto di subcultura in cui spesso si usa il dialetto come lingua principale. Chi proviene da ambienti disagiati ha perso la capacità di immaginare, si proietta nel futuro come il proseguimento delle orme genitoriali. Il mondo, ai loro occhi, non prevede scala sociale, l’ascensore è fermo, come le loro vite precarie che sono bloccate da un sistema che qualcuno ha scelto per loro.
L’insegnante diventa allora quel pazzo visionario che deve inculcare loro la speranza che esiste un mondo diverso da quello in cui il loro futuro è segnato, il sognatore che dimostra loro che i sogni sono solo progetti da realizzare con l’impegno, la serietà, l’abnegazione. Il docente è il primo a doverla mostrare. È il primo a dove credere che la sua opera, quasi missionaria, lasci un segno, un’impronta, una traccia di un modo di essere capace di trarre fuori da ciascuno il meglio.
L’insegnante deve allora innestare in loro il seme della fiducia che significa abbandonarsi all’altro, deve instaurare un rapporto in cui gli alunni percepiscono che non sono solo un essere sottoposto a giudizio, marchiato da un numero: il voto che stigmatizzerà quanto valgono. L’alunno deve sentirsi persona, deve percepire che ha un valore e il valore spesso, a prescindere dal voto dell’insegnante, ce lo attribuiamo quando ci scopriamo in grado di riuscire nella realizzazione di un compito.
L’insegnante deve rendere possibile quella riuscita. Deve renderli consapevoli che l’intelligenza, la potenzialità di riuscita dipende dalla loro volontà di impegno e che l’impegno più grande devono assumerlo verso le loro vite che non sono predeterminate da un destino ineluttabile e che l’alternativa al determinismo è adoperarsi per immaginare una prospettiva diversa in cui collocare le loro vite.
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