Relazioni

La cura è relazione ma ci vogliono i corpi

16 Aprile 2020

Claudio, un amico medico della bassa bergamasca, mi scrive dalla sua camera: “Sono steso da nove giorni. La febbre non mi lascia, inizio a far fatica a respirare. Nelle scorse settimane, ho dato molto, con poche protezioni. Mi spiace, c’è molto da fare, da aiutare, ma so che c’è un momento in cui occorre affidare ad “altri” la salvezza del mondo. Ti ringrazio per aver invaso la mia stanza d’isolamento con la tua “presenza”. Titta invece, responsabile di una struttura sanitaria, risponde al mio messaggio chiamandomi con un filo di voce. È stremato. Tossisce. Anche lui da una settimana è fuori uso. Non sa più dire da quanto tempo non dorme. Nelle Rsa si muore, ma i decessi finiscono solo ora nei conteggi. I suoi ospiti sono “stranieri” anche alle statistiche. Luca, continua a lavorare in fabbrica, perché la sua è un’industria essenziale. Poi finito il turno, va in Protezioni Civile, preparare i pasti per chi è in isolamento, per gli anziani soli. La sera va portare il cibo ai senzatetto. Mi dice da buon bergamasco, schietto e di poche parole che “Semplicemente ore si deve”. Laura invece lavora e vive a Parigi da anni.  Suo papà è entrato in ospedale a Varese. Ci è rimasto poco. L’ultima volta che si sono parlati hanno avuto un battibecco. E lei ora non trova pace. Non ha potuto chiedere scusa, non ha potuto stringergli le guance con le mani, come faceva da bambina. È rimasta così, con il nome strozzato in gola.

Come non sentirmi piccolo di fronte a loro. Egoista per il mio disagio, per la costrizione in una casa con giardino, la veranda e il panettiere che per consuetudine, non per emergenza, porta il pane a domicilio assieme a due parole, un sorriso e l’odore della farina. Eppure, la reclusione forzata apre squarci che travalicano il confine, cadute verticali, un equilibrio individuale che non regge ai giorni che sono sempre lo stesso giorno. E allora fatto salvo che solo il distanziamento sociale può rallentare e quindi sconfiggere il contagio, è giusto dire, lasciare che la vergogna si posi su altro, permettere alla voce di farsi parola. E come un bambino deve gridare la sua fatica, un “basta” dalla finestra, molto meno retorico dei canti sui balconi che nel giro di poco sono diventati i bastoni della delazione, anche noi non possiamo celare la nostra angoscia. La parola deve essere pronunciata. Essa quando non è sterile gorgoglio, si fa carne, s’incarna.

Abbiamo bisogno degli altri. Se il contagio si cura con il distanziamento sociale, le persone si curano con la relazione. La cura è sempre relazione. Ma ci vogliono i corpi. Siamo anime, spiriti, forme dell’essere, che si sostanziano attraverso i corpi, che si incontrano, si rapportano, talvolta si frappongono, nell’incontro con l’altro.

Anche questa mattina mi appresto  a spalancare la porta dello studio, certo del fatto che non incontrerò nessuno. Mi sarà precluso l’imprevisto della conoscenza. E l’imprevisto è l’elemento che cambia la storia, personale e collettiva. Sempre. Da Cristo, ai Padri Costituenti, all’amore. Finiamo spesso le nostre e-mail con un canonico “Ti abbraccio” che è diventato semplicemente la formula meno austera dello sbrigativo “Cordiali Saluti”, anch’esso depauperato dal suo etimo: “cordiale: che muove dal cuore, cioè veramente sentito”. Rispetterò il distanziamento sociale, le regole, i decreti, il lutto, ma non voglio vergognarmi nel pronunciare le parole, dare consistenza, forma e verità alla carne che esse richiamano. Vi voglio stringere e circondarvi con le mie braccia carissimi Claudio, Titta, Luca, Laura. Dare corpo alla mia voce, anima all’imprevisto.

 

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