Relazioni
Bauman, il pioniere che ci portò nella comunità che ci manca
“Liquido” è una parola che abbiamo usato per definire la condizione di un corpo. Con Zygmunt Bauman quella parola si è insediata nel nostro vocabolario pubblico per non uscirne più e ha complessivamente modificato il senso del suo significato.
Non so cosa rimarrà di Zygmunt Bauman tra dieci anni. Probabilmente “società liquida” è l’espressione che ha maggiori possibilità di rimanere nel nostro vocabolario pubblico.
Altre parole, a mio avviso, più problematiche, apparentemente meno pervasive, ma più dirompenti, sono destinate a rimanere. Tra queste comunità. Non perché “comunità” nel suo vocabolario pubblico indichi un’idea prestatuale, al contrario, perché in essa Bauman vede già profilarsi all’orizzonte la fisionomia di una società scontenta dello Stato che va a rifugiarsi in una dimensione solo apparentemente premoderna e prestatuale, in realtà fortemente statalizzata e ricca di quelle contraddizioni e di quella violenza e soprattutto di quella “discriminazione” che prefigura la crisi dell’Europa e per certi aspetti si profila nella sua visione come una risposta e una replica.
Quando nel 2000 Bauman pubblica per Polity Press Missing Community (in italiano tradotto con il titolo di Voglia di comunità), l’Europa è alle soglie della sua nascita sostanziale.
L’idea è che al di là dello Stato nazionale si stia formando una nuova realtà in grado di dare soddisfazione alle diseguaglianze. Bauman guarda con diffidenza a quel mito politico dell’Europa perché in quel patto con l’Europa intravede già gli elementi della crisi quale si presenterà un quindicennio dopo, oggi.
Scrive Bauman in quel suo testo, per molti aspetti premonitore, intravedendo cosa poi molti andranno a cercare in quella parola 15 anni dopo, che alla parola comunità è sempre associata una dimensione “buona” o “felice”, comunque “calda” e “protettiva”. In breve, positiva.
Ma subito dopo precisa come essa, però, abbia anche una dimensione soffocante, tra ciò che promette e ciò che pretende. Tra promessa (da vedere se poi mantenuta) e richiesta preliminare. Tra “comunità dei nostri sogni” e “comunità realmente esistente”.
“Una collettività – scrive all’inizio di quel testo – che pretende di essere la comunità incarnata, il sogno realizzato, e che in nome di tutto il bene che si presume possa dispensare esige una lealtà incondizionata e considera qualsiasi altro atteggiamento un imperdonabile atto di tradimento, La ‘comunità realmente esistente’, qualora ce ne trovassimo partecipi, reclamerebbe ubbidienza assoluta in cambio dei servizi erogati o che promette di erogare. Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa spiacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Istalla un allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far entrare gli estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri. Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una. Il problema è che se si segue questo consiglio e si tengono le finestre chiuse, l’aria all’interno diventa ben presto stantia e alla fine irrespirabile”.
La questione dunque è quella di risolvere il problema della sicurezza, una funzione intorno a cui, a differenza di quanto pensavamo nel 1989, sono tornati ad essere attuali, i muri destinati a non essere un segno residuale di passato, ma ad avere un futuro: non più segno della vergogna o dell’offesa, ma della tutela. Per questo, suggerisce, la loro abolizione non è più una priorità. Magari teorizzando che ognuno ha diritto al suo muro. E’ la conseguenza della società multiculturale anziché dell’intercultura. Una condizione che propone spazi per tutti, ma senza contaminarsi. Coabitando, ma senza mescolarsi. Ciascuno “a casa sua”.
“Comunità” dunque acquista un significato anche per questo.
Perché come scrive Bauman con grande premonizione già venti anni fa, “il problema è che la ricetta con cui vengono realizzate le ‘comunità realmente esistenti’ non fa altro che rendere ancor più acuta e difficile da sanare la dicotomia tra sicurezza e libertà”.
Quest’ aspetto è incrementato o acutizzato dalla dimensione della vita globale ovvero della perdita di connessione nazionale nella vita quotidiana. Apparentemente la geografia diviene una dimensione e una preoccupazione marginale. Ad essa tuttavia subentra una fedeltà di appartenenza. Se prima siamo il luogo dell’incrocio, ora quella geografia va letta complementarmente all’appartenenza. Le mappe che dipingono l’identità di ciascuno sono multiple, non si collocano in un luogo; fisicamente le persone non sono la fedeltà fisica a un luogo, ma ciò che emerge è la volontà di adesione.
L’adesione alla comunità più che una realtà si configura così come un atto di fedeltà, cui venir meno significa “tradire”, “disertare”, “passare al nemico”.
Lì si delinea la nuova frontiera delle identità collettive al tempo presente: contemporaneamente votate a descrivere una condizione universale, ma gelose della propria individualità e spaventate e terrorizzate di perdere la propria specificità. A dispetto della nostra continua dichiarazione di essere globali, è la comunità degli identici, intoccata (e dunque “pura”), dove appartenenza significa soprattutto convinzione di non contaminazione, a descrivere la visione ossessionata del nostro presente.
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