Relazioni

Il primo Natale triste per le generazioni più fortunate di sempre

24 Dicembre 2020

L’infelicità privata, la povertà, l’ingiustizia sociale ed economica, la disperazione di chi ha perso il lavoro o gli affetti, non sono mai – nè mai saranno – fuori dalla storia. Anche in una società perfetta, come diceva Albert Camus, i bambini continueranno a morire ingiustamente. E però dobbiamo dircelo, anche alla fine di quest’anno orribile, proprio perché siamo alla fine di un anno orribile: siamo, mediamente, noi occidentali nati tra gli anni quaranta del secolo scorso e oggi, gli umani più fortunati di sempre.

Siamo le generazioni che non hanno conosciuto la povertà come fenomeno di massa, e piuttosto hanno vissuto il benessere come condizione minima. Abbiamo considerato la scolarità e la sanità pubblica come commodities, il viaggio e lo spostamento internazionale come una cosa ovvia, non abbiamo mai conosciuto la guerra se non nei racconti dei testimoni di quelle di allora, proprio quei testimoni che uno a uno se ne stanno andando. E non abbiamo – non avevamo mai – conosciuto una pandemia.

C’è voluto quest’anno terribile per ricordarci la paura, la fragilità, la fine della vita come ipotesi concreta e improvvisamente attuale e minacciosa per noi e i nostri affetti. La forte limitazione della libertà di ciascuno come via maestra per la salvezza dei più, soprattutto dei più fragili. La spesa pubblica e il debito come unica risorsa possibile perché la fame non ne uccida tanti ancora, tanti di più. L’altro, che per gli altri siamo noi, è diventato possibile vettore di contagio e di malattia. Noi stessi ci siamo scoperti pericolo inconsapevole per tutti, e soprattutto per le persone cui teniamo di più, proprio quelle che vogliamo proteggere e che vorremmo non perdere mai. Abbiamo conosciuto l’incoscienza di chi nega la malattia, la manìa opposta di chi accusa di irresponsabilità chiunque non stia murato in casa da marzo, il cinismo di chi pensa che a morire siano solo i vecchi (e quindi pazienza), e il privilegio di chi forte di una rendita (o speranzoso che a valle del disastro finisse addirittura il capitalismo) invitava a fermare tutto – la scuola, il lavoro, la vita – perché solo cosi si poteva tutelare la salute. Abbiamo conosciuto un paese prima pronto a obbedire a tutto, perché terrorizzato della morte, poi sempre più insofferente ad accettare limitazioni per definizione un po’ arbitrarie, ma tutto sommato minime rispetto al rischio che si paralizzasse per settimane un intero sistema ospedaliero, cioè un intero paese. Abbiamo conosciuto la dedizione dei medici, ma anche il narcisismo di alcuni tra loro. Per conoscere invece la sciatteria e la pigrizia della nostra categoria, i giornalisti,  non serviva una pandemia.

Questo Natale di pochi incontri, di tavole piccole e mascherine, di distanze che sembravano innaturali, di prudenze incertezze e paure, di angoscia per una situazione economica rispetto alla quale le incognite stanno tutte davanti a noi, ci coglie così, dunque. Tardivamente coscienti che può ancora succedere l’evento catastrofico, anche qui, proprio nel cuore delle nazioni che sognavano di poter sconfiggere la morte tanto da rimuoverla come esito naturale. Tardivamente coscienti di quanto sia importante investire soldi pubblici, cioè soldi presi dalle nostre tasse, in ricerca, medicina di territorio, ospedali. Tardivamente coscienti del fatto che, negli ospedali, a un certo punto ci si può trovare a dover scegliere chi curare, e naturalmente non vorremmo mai essere i “non scelti”. Tardivamente consapevoli che la politica serve davvero alle cose importanti della vita, ed è solo su quello che avrebbe senso giudicarla, se solo ci ricordassimo – senza sentirle minacciate – quali sono le cose importanti.

Eppure, in tutto questo ritardo, piace credere che più del quando è arrivata, conti la scoperta che abbiamo guadagnato. Cioè la coscienza. La coscienza di avere comunque vinto al lotto della storia un terno secco, che ci ha fatto nascere, vivere, crescere in un tempo e in una terra fortunati. In cui in meno di un anno, per capirci, arriva un vaccino contro un’epidemia globale che ha paralizzato il pianeta. In cui, il mondo ha dimostrato comunque, nonostante tutto, di prendere sul serio la vita umana, anche quella più indifesa, anche e soprattutto quella non più produttiva, e di accettare di metterla prima di tutto il resto, almeno per un po’. Tra un anno, quando tutti speriamo di essere nuovamente riuniti, abbracciati, vicini, con le gote arrossate e i calici pieni, sarà difficile combattere la tentazione di cancellare da ogni memoria questo tempo. Eppure sarà tanto più importante, perchè la breve parentesi e dolorosa rappresentata dal Covd 19 servirà a tenere vivo il ricordo della fortuna che abbiamo ereditato. Che ci fa diversi, non migliori, di chi è venuto prima di noi. Che ci fa diversi, e solo molto più fortunati, di chi appartiene al nostro stesso tempo, ma non ha vinto il nostro biglietto della lotteria, ma è nato e cresce dove morire come le mosche è ancora la cosa più normale che può capitare agli esseri umani.

 

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