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Cosa non si fa per un post al sole?
Le parole sono i nostri strumenti
e, quanto meno, dovremmo usare strumenti puliti.
J.L. Austin
I silenzi ci imbarazzano al punto che abbiamo imparato a riempirli con i nostri strumenti digitali per evitare di far calare il vuoto sulle nostre vite. Fingiamo di comunicare anche quando non c’è nessuno che ci sta ascoltando. Proponiamo i nostri sentimenti, le nostre immagini, le nostre banalità quotidiane anche quando nessuno ce lo chiede. L’importante è continuare a comunicare, anche quando diventa una finzione. Il rischio è di non riuscire più a distinguere tra una comunicazione vera e una comunicazione falsa.
Eppure si sentono talmente tante sciocchezze che a volte viene la voglia di non ascoltare più nulla.
Gli altri possono sembrare così lontani o indifferenti che può persino sembrare inutile parlare.
In questo stordimento di connessioni, di immagini, di proposte può nascere il desiderio dell’isolamento.
È possibile che l’uomo sordomuto del Vangelo abbia deciso di non comunicare più, forse per protesta o per stanchezza, per delusione o per debolezza. Mi colpisce infatti che sia la folla a portarlo da Gesù: non ci va da solo, non è lui a chiedere a Gesù di guarirlo, non incontra Gesù per caso sulla sua strada. In qualche modo c’è anche una folla buona che si preoccupa dell’anomalo silenzio di uno che ha cessato di comunicare.
A volte c’è bisogno di solitudine e di silenzio per vivere relazioni autentiche: Gesù porta quest’uomo in disparte, lo allontana dalla folla, come se avesse intuito il suo bisogno di intimità. È in quello spazio di solitudine che è possibile comunicare veramente, nell’intimità di una relazione profonda, una relazione fatta di pochissime parole, ma di gesti molto intimi. Quest’uomo vive un momento di forte prossimità con Gesù. La sua guarigione passa attraverso una relazione vera, non fatta di chiacchiere, ma di vicinanza: Gesù lo tocca nelle orecchie e sulla lingua, lo tocca nel suo bisogno di ascoltare parole vere e di dire parole sincere. Gesù lo invita ad aprirsi, a non rimanere nella sua chiusura e nel suo isolamento. Lì, in quello spazio di relazione autentica, senza filtri, in una prossimità sincera, non ha bisogno di chiudersi nel suo mutismo. Può cominciare a parlare correttamente.
Sì, Marco non dice solo che quest’uomo ricominciò a parlare, ma cominciò a farlo in modo corretto. Forse il suo mutismo, il suo silenzio, nascevano anche dall’esperienza di un uso sbagliato della parola e della comunicazione. Al di fuori di relazioni sane, il nostro modo di comunicare può diventare un abuso, un abuso fatto di menzogna, di toni eccessivi, di pregiudizio o di pettegolezzo.
In una società affetta dalla bulimia della comunicazione capita spesso di parlare in maniera scorretta. La parola è diventata così banale da privarci del gusto dell’ascolto e della conversazione.
Restituendo quest’uomo alla folla, Gesù avverte anche gli altri di diventare più prudenti nella comunicazione: li invita a conservare nel cuore con discrezione quello che hanno vissuto, e invece pubblicano subito su Facebook le foto di quell’esperienza. Non riescono a fare silenzio, non riescono a gustare, non riescono a custodire nel cuore. La vita diventa una successione di post, presto dimenticati.
La grande illusione è quella di pensare che la nostra vita valga nella misura in cui gli altri la vedono, come se solo l’approvazione, l’invidia o lo sguardo degli altri certificasse il valore di quello che abbiamo vissuto. In una società così viene davvero la voglia di tapparsi le orecchie e di chiudere la bocca.
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Testo
Leggersi dentro
Che rapporto ho con le parole? Le uso con prudenza o correttamente? O non riesco a frenarmi nel racconto, nella chiacchiera, nel pettegolezzo?
Ho bisogno sempre di comunicare quello che vivo o so custodire nel cuore le mie esperienze, senza dissipare e senza svendere?
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