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Condividere senza pudore è spargere in giro brandelli e rumori del mondo?

20 Settembre 2016

 

Chissà se la morte con cui Tiziana Cantone ha scelto di terminare quel girone di sofferenza in cui era caduta è  scesa invocata, sicuramente il nulla eterno dopo la morte, quello che di foscoliana memoria  termina ogni affanno, le  è sembrato una prospettiva più allettante di quella che era diventata ormai la sua vita.  Solo che in questo reo tempo  in cui viviamo  non si concede silenzio neppure ai morti. Basta, infatti, digitare semplicemente il nome Tiziana sul qualsiasi motore di ricerca  che compaiono  decine di articoli in cui i particolari di questa storia vengono sviscerati, rendendo il diritto all’oblio un’ utopia anche per chi non c’è più.

Si è detto tanto. Quello che secondo me va ribadito ad oltranza, però, è la necessità di stabilire un diritto alla privacy . Tiziana voleva essere visibile, è vero, aveva  superato quella linea di confine che delimita lo spazio del  privato da quello  pubblico, ma  voleva essere visibile  solo dalle cinque persone a cui i video erano stati inviati. Tiziana  ha peccato sicuramente   di superficialità nel non prevedere una diffusione degli stessi nel grande contenitore del consumo facile rappresentato dalla rete che tutto divora, a volte, forse troppo spesso, stritola.

Il problema che emerge da questa vicenda e  che spesso si sottovaluta è il potere della tecnologia che  lontano dall’essere semplicemente quello che noi facciamo con  essa, rappresenta, invece, un sistema di produzione che tende a potenziarsi  fino a distaccarsi dalla vicenda e dalle motivazioni del caso per diventare tormentone, ripetizione reiterata, fatto di costume.

Tiziana in quei video che rimbalzavano sui vari portali non era una donna di 31 anni con una  sua storia, era una donna  la cui vita intima, quella che dovrebbe essere tutelata dal pudore, è diventata proprietà comune, come il suo corpo.

Altra  grave errore di Tiziana è non aver compreso che l’intimità, negazione all’estraneo e concessione a chi si sceglie di far entrare nella propria profondità, è  tutelata dal pudore,  unico garante non solo della nostra intimità, ma  soprattutto della nostra libertà. È così che la  sua vita intima è stata di dominio pubblico, di un pubblico più ampio di quanto lei avesse previsto, più di quanto avesse avuto la possibilità  di scegliere. Nel momento in cui l’intimità perde il suo tratto intimo, quando non c’è più una parete che separa il dentro e il fuori, e quello che è interiore diviene esteriore, si assiste ad una  frantumazione della nostra soggettività e della nostra libertà nelle relazioni con l’altro.

Che il filmare e mandare in rete non sia solo un gioco , ma un gioco a volte dalle conseguenze tragiche dovrebbe essere  ormai noto  a tutti, come dovrebbe essere noto il fatto che si è inibita  la nostra dimensione umana, incapace di indignarsi, se non sui social,  vergognarsi, commuoversi.

Il caso della 17enne  che durante lo stupro consumato in un bagno di una discoteca è stata filmata da persone che si definiscono amiche, ne è un’ ulteriore dimostrazione. Sarà  forse che  nel mondo globalizzato e digitalizzato  della fratellanza universale si è perso il senso del legame soppiantato dall’indifferenza? La “bambola di pezza”, espressione utilizzata per descrivere la ragazza inerme stordita dall’alcol, era in realtà  chi subiva lo stupro o chi filmando quell’orrore come se non riguardasse loro, mostrava di non avere un’anima?

Forse  è sfuggito il fatto che i nuovi mezzi di comunicazione non sono neutrali rispetto alla natura umana e che questa ne subisce essa stessa delle modifiche mentre manipola, digitando, il mondo.

Probabilmente  le amiche della ragazza che non hanno pensato di aiutare o chiamare soccorso erano, per dirla alla Heidegger, “semplici consumatori del mondo”, e la “bambola di pezza” è  stata ridotta a semplice immagine cosicché a essere stato stuprato e  consumato è solo il suo fantasma non il suo corpo.

Non più esposti al mondo, neppure quello che  ci riguarda in prima persona, ma alla visione del mondo, in un’ omologazione di emozioni che riguardano l’ “amico” più prossimo come quello più lontano, in un mondo in  cui il pensiero libero si esercita nella quantità di contenuti da esporre e non sul valore di atteggiamenti e la condivisione di sentimenti dove tutto è bravata e giustificabile, sarebbe il caso di riflettere sul  quanto siamo immersi in un universo  in cui tutti comunicano, ma nel loro insieme le nostre narrazioni sono autoreferenziali e ci riduciamo a dialogare solo con noi stessi.

Forse bisognerebbe pensare che in questo tipo di mondo  in cui fatti, azioni, parole, sono importanti solo se hanno una diffusione digitale,  questa onnipotenza mediatica altro non fa che ridurre i nostri spazi di libertà.

Lo ha capito bene Tiziana che ha scelto il suicidio pur di affrancarsi da etichette e dalla schiavitù di un dito perennemente puntato.

Credo, allora, che la scelta di sottrarsi all’omologazione, di praticare l’arte del dubbio, di reagire all’indifferenza adeguandosi  alla moda  del momento, si nutra sempre di libertà intesa nella sua accezione solidale ed empatica che pertanto non può prescindere dall’esistenza dell’altro.

Scegliere implica sempre un atto di coraggio, di responsabilità, a volte si incorre nel rischio di essere ostracizzati. Scegliere però significa essere capaci di reinventare e fornire una dimensione umana a quello che ci circonda.

La nuova disumanità che emerge dal mondo del tutti per uno nessuno per tutti, ci chiama allora ad una presa di coscienza e di  responsabilità individuale e collettiva allo stesso tempo.

Se in “Blowin’ in  the Wind” Dylan canta: “How many times can a man turn his head pretending that he just doesn’t see”, nel caso di Tiziana e di una 17enne che cercava evasione come tanti suoi coetanei, si  è  guardato, filmato,  sparlato, deriso, giustificato, condannato. Soprattutto si è  girato la testa e negato

 

 

 

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