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Condividere senza pudore è spargere in giro brandelli e rumori del mondo?
Chissà se la morte con cui Tiziana Cantone ha scelto di terminare quel girone di sofferenza in cui era caduta è scesa invocata, sicuramente il nulla eterno dopo la morte, quello che di foscoliana memoria termina ogni affanno, le è sembrato una prospettiva più allettante di quella che era diventata ormai la sua vita. Solo che in questo reo tempo in cui viviamo non si concede silenzio neppure ai morti. Basta, infatti, digitare semplicemente il nome Tiziana sul qualsiasi motore di ricerca che compaiono decine di articoli in cui i particolari di questa storia vengono sviscerati, rendendo il diritto all’oblio un’ utopia anche per chi non c’è più.
Si è detto tanto. Quello che secondo me va ribadito ad oltranza, però, è la necessità di stabilire un diritto alla privacy . Tiziana voleva essere visibile, è vero, aveva superato quella linea di confine che delimita lo spazio del privato da quello pubblico, ma voleva essere visibile solo dalle cinque persone a cui i video erano stati inviati. Tiziana ha peccato sicuramente di superficialità nel non prevedere una diffusione degli stessi nel grande contenitore del consumo facile rappresentato dalla rete che tutto divora, a volte, forse troppo spesso, stritola.
Il problema che emerge da questa vicenda e che spesso si sottovaluta è il potere della tecnologia che lontano dall’essere semplicemente quello che noi facciamo con essa, rappresenta, invece, un sistema di produzione che tende a potenziarsi fino a distaccarsi dalla vicenda e dalle motivazioni del caso per diventare tormentone, ripetizione reiterata, fatto di costume.
Tiziana in quei video che rimbalzavano sui vari portali non era una donna di 31 anni con una sua storia, era una donna la cui vita intima, quella che dovrebbe essere tutelata dal pudore, è diventata proprietà comune, come il suo corpo.
Altra grave errore di Tiziana è non aver compreso che l’intimità, negazione all’estraneo e concessione a chi si sceglie di far entrare nella propria profondità, è tutelata dal pudore, unico garante non solo della nostra intimità, ma soprattutto della nostra libertà. È così che la sua vita intima è stata di dominio pubblico, di un pubblico più ampio di quanto lei avesse previsto, più di quanto avesse avuto la possibilità di scegliere. Nel momento in cui l’intimità perde il suo tratto intimo, quando non c’è più una parete che separa il dentro e il fuori, e quello che è interiore diviene esteriore, si assiste ad una frantumazione della nostra soggettività e della nostra libertà nelle relazioni con l’altro.
Che il filmare e mandare in rete non sia solo un gioco , ma un gioco a volte dalle conseguenze tragiche dovrebbe essere ormai noto a tutti, come dovrebbe essere noto il fatto che si è inibita la nostra dimensione umana, incapace di indignarsi, se non sui social, vergognarsi, commuoversi.
Il caso della 17enne che durante lo stupro consumato in un bagno di una discoteca è stata filmata da persone che si definiscono amiche, ne è un’ ulteriore dimostrazione. Sarà forse che nel mondo globalizzato e digitalizzato della fratellanza universale si è perso il senso del legame soppiantato dall’indifferenza? La “bambola di pezza”, espressione utilizzata per descrivere la ragazza inerme stordita dall’alcol, era in realtà chi subiva lo stupro o chi filmando quell’orrore come se non riguardasse loro, mostrava di non avere un’anima?
Forse è sfuggito il fatto che i nuovi mezzi di comunicazione non sono neutrali rispetto alla natura umana e che questa ne subisce essa stessa delle modifiche mentre manipola, digitando, il mondo.
Probabilmente le amiche della ragazza che non hanno pensato di aiutare o chiamare soccorso erano, per dirla alla Heidegger, “semplici consumatori del mondo”, e la “bambola di pezza” è stata ridotta a semplice immagine cosicché a essere stato stuprato e consumato è solo il suo fantasma non il suo corpo.
Non più esposti al mondo, neppure quello che ci riguarda in prima persona, ma alla visione del mondo, in un’ omologazione di emozioni che riguardano l’ “amico” più prossimo come quello più lontano, in un mondo in cui il pensiero libero si esercita nella quantità di contenuti da esporre e non sul valore di atteggiamenti e la condivisione di sentimenti dove tutto è bravata e giustificabile, sarebbe il caso di riflettere sul quanto siamo immersi in un universo in cui tutti comunicano, ma nel loro insieme le nostre narrazioni sono autoreferenziali e ci riduciamo a dialogare solo con noi stessi.
Forse bisognerebbe pensare che in questo tipo di mondo in cui fatti, azioni, parole, sono importanti solo se hanno una diffusione digitale, questa onnipotenza mediatica altro non fa che ridurre i nostri spazi di libertà.
Lo ha capito bene Tiziana che ha scelto il suicidio pur di affrancarsi da etichette e dalla schiavitù di un dito perennemente puntato.
Credo, allora, che la scelta di sottrarsi all’omologazione, di praticare l’arte del dubbio, di reagire all’indifferenza adeguandosi alla moda del momento, si nutra sempre di libertà intesa nella sua accezione solidale ed empatica che pertanto non può prescindere dall’esistenza dell’altro.
Scegliere implica sempre un atto di coraggio, di responsabilità, a volte si incorre nel rischio di essere ostracizzati. Scegliere però significa essere capaci di reinventare e fornire una dimensione umana a quello che ci circonda.
La nuova disumanità che emerge dal mondo del tutti per uno nessuno per tutti, ci chiama allora ad una presa di coscienza e di responsabilità individuale e collettiva allo stesso tempo.
Se in “Blowin’ in the Wind” Dylan canta: “How many times can a man turn his head pretending that he just doesn’t see”, nel caso di Tiziana e di una 17enne che cercava evasione come tanti suoi coetanei, si è guardato, filmato, sparlato, deriso, giustificato, condannato. Soprattutto si è girato la testa e negato
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