Relazioni
Chi è il mio prossimo
Leggo in ritardo questo libro di Adriano Sofri (“Chi è il mio prossimo”, Sellerio 2007, pp. 345). Non inganni il titolo: è una grossa raccolta di pezzi apparsi sui giornali nella prima decade del 2000. Il tema del “prossimo” ne è a malapena il filo conduttore e vi occupa solo qualche spazio neanche centrale. Il nucleo segreto del libro potrebbe recare il titolo di una formula di Hegel : “il cattivo corso del mondo”, ossia guerre, sconvolgimenti, miserie, mondialità in subbuglio. Vi sono divagazioni su fatti di cronaca, letture di libri, pensieri estemporanei, note da taccuino. È il tipo di libro frammentario che piace a me ed è forse ormai, rispetto al saggio riccamente argomentato, “frontale”, con la sua bibliografia ben esposta, una delle forme di scrittura “laterale” che più sta trovando consonanza e risonanza nei nostri tempi sfrangiati, sincopati come in un videogioco.
Ma vi sono anche temi spuri. C’è ad esempio un bel brano che ho sottolineato sull’ «Ideologia e l’addestramento ai gerghi» che chiunque abbia frequentato i testi attorcigliati degli anni Settanta non potrà non condividere. Scrive Sofri: « Ho visto molte persone annegare nel feticismo di gerghi sofisticati e impervii, per la soggezione al sospetto che fossero decisivi per orientare la vita: i quali gerghi inducono a rinunciare alla ricerca di senso, e ad addestrarsi all’imitazione e alla riproduzione, come di un gioco che faccia regola a sé». Nel passo successivo sostiene che fu l’ideologismo di sinistra ad avervi un grave ruolo in questa deriva perché tale ideologismo «era stato spesso una devozione filologica e dogmatica alle parole di un testo sacro, e dunque induceva di nuovo a scorgere un riscatto in discorsi e parole svincolate dalla dipendenza da una realtà, e per questo liberatrici: mentre ribadivano la trasformazione del mondo in un discorso chiuso».
Molto chiaro, no? Autoreferenzialità, uso “liturgico” e iniziatico della parola, orti chiusi di “noi” contrapposti al resto del mondo, e paranoie linguistiche. Qualcosa di questo approccio si vede ancora in giro oggi, anzi, come si sa, le repliche nella storia sono grottesche se le prime sono state tragiche. La mia generazione è cresciuta in questo ambiente culturale: è stata la nostra koiné, dalla quale io credo di essermi salvato, se mi sono salvato, semplicemente perché provenendo dalla plebe urbana avevo imparato un uso referenziale della parola: quello di dire “pane al pane” in un ambiente dove ce n’era poco e dove l’estetismo, principalmente linguistico, della borghesia, specie quella che aveva aderito in massa a “Lotta continua”, era visto con ironico sospetto. E questo brano sembra avere le parvenze di una sorta di autocritica postuma, per quanto possibile in un leader come Sofri che conoscemmo molto preso da sé attraverso altri testi giornalistici dell’epoca, legnosi e ideologici.
Ma più avanti leggo un altro passo di stampo volterriano e di ariosa esposizione da “moralista” classico francese, che gli fa guadagnare mille punti ai miei occhi e che mi ha fatto assentire vistosamente. È un originale appello al buon eclettismo, da assumere come contravveleno rispetto ai dogmatismi in cui siamo cresciuti. Lo riporto quasi per intero:
« Il fanatismo culturale (ideologico, come preferiamo chiamarlo per rassicurarci, nella speranza che siano le ideologie a produrre violenze e crimini) è infatti radicato più in fondo ai nostri modi di conoscenza, di pensiero e di educazione. Una faziosità, una pretesa dispotica ed esclusiva, una tentazione prepotente al sistema e una diffidenza per la molteplicità frammentaria, sta dentro il modo in cui noi riceviamo, sistemiamo e trasmettiamo conoscenza e idee. È più facile – lo mostrano più platealmente gli estremismi, ma non solo loro – passare da un complesso culturale dogmatico a un altro (anche alla correttezza politica, magari), che a una disposizione aperta e duttile. La tolleranza è difficile antidoto a una tentazione inevitabile. Perciò non è fatta per entusiasmare».
Chioso dicendo che in quella tentazione al “sistema” – voler spiegare tutto con una formula filosofica chiusa e circolare – c’è un’allusione neanche tanto criptata allo “spirito di sistema” di Hegel, che venne ereditato però dal marxismo, quel volere spiegare, contro il parere di Amleto, tutto il cielo e tutta la terra con quei grimaldelli dell’Assoluto che sono le idee sistematiche (le ideologie, cos’altro?), mentre in quel passare da un dogmatismo all’altro vi leggo un’osservazione puntuta verso tante grottesche “conversioni”, tipiche degli spiriti dogmatici che hanno visto salvezza e chiavi di lettura del mondo personali una volta nella classe operaia, la volta dopo nella Foca Monaca, l’altra ancora in Allah. Musil, da austriaco intelligente, diceva che «i filosofi sono dei violenti che non avendo a disposizione un esercito si impadroniscono del mondo chiudendolo in un sistema».
La prosa di Sofri non è sempre così sciolta, non una linea retta che va dritta al nucleo pulsante dell’argomento, quanto piuttosto un ghirigoro a “tela di ragno”, un periodare articolato e ricco di subordinate, come di un rimuginio permanente. L’uso dei gerghi ha lasciato vistose tracce di pesantezza nel suo stile si potrebbe dire. A sua parziale assoluzione va la considerazione che la pesantezza e l’involuzione è la lotta quotidiana non sempre vinta di chi sfida la scrittura.
***
Il tema del prossimo apre tuttavia il libro con la parabola del buon samaritano, ed è tema che si svolge tutto dentro al discorso cattolico con qualche opportuna citazione anche del papa Ratzinger allora regnante. È il tema del prossimo che viene da lontano che diventa fratello e che serve da introduzione alla trattazione di tipo diaristica dei mali del mondo di oggi.
A latere osservo che, seppur non sembra esserci in Sofri alcuna preoccupazione di carattere filologico-teologico, sarebbe stato più appropriato o chic, visto che egli aveva già assunto i panni del catechista, rammentare che Gesù si muove dentro l’ebraismo, come molti studiosi di oggi sottolineano, che insomma Gesù non era “cristiano” e che, per dirne una, proprio il “comandamento dell’amore” che appare il più cristiano in assoluto – ossia in aperta opposizione o distacco dall’ebraismo – quell’«ama il prossimo tuo come te stesso», viene invece dal Levitico (19,18). Gesù cita la “propria” Scrittura, non intende dettare alcun nuovo Vangelo cristiano con quella massima. Fatto che è stato sempre sottaciuto da stirpi di catechisti tridentini tesi a contrapporre nuovo a vecchio testamento e a occultare ogni prestigio biblico, come i libri di Gigliola Fragnito, primo fra tutti “La bibbia al rogo”, ci hanno ampiamente dimostrato. Però, di contro, trovo qui l’annotazione brillante di Sofri che il Vangelo starebbe alla Bibbia come un pamphlet di Voltaire (!) rispetto alla corposità del Vecchio Testamento. Un résumé, viene suggerito, più sintetico e brillante.
Il tema del prossimo, ripreso e abbandonato, trova qualche precisazione più circostanziata duecento pagine dopo dell’esordio con la parabola del buon samaritano. È il luogo in cui Sofri si interroga sulle differenze tra la carità della Chiesa e il concetto di solidarietà della sinistra dei suoi anni giovanili e dall’altro su una questione di tipo logico-etica: quanto prossimo possiamo amare, o meglio: a quali e quante persone dobbiamo dedicarci? Sono due questioni intimamente legate. La sinistra degli anni ’70 nell’amministrazione della carità da parte della Chiesa sospettava un compiacimento narcisista e la convinzione che la povertà andasse alleviata, purché non abolita. L’altra questione, quella del numero delle persone a cui possiamo o dobbiamo dedicarci, sorge subito alla mente con le modalità che vorrei dire con parole mie. Ho spesso pensato che cosa sarebbe successo al buon samaritano se subito dopo il rinvenimento dell’uomo percosso dai briganti che lui amorevolmente soccorre, avesse trovato sulla sua strada un altro indigente e poi un altro ancora e un altro e poi un altro. Che è la nostra imbarazzante esperienza di tutti i giorni, una sorta di equazione indecidibile della prossimità, per la quale dopo il primo che ti chiede la carità trovi – nel raggio di cinquecento metri sotto i portici della mia cittadina – una sequela di mendicanti verso cui se adotti la parabola del “buon samaritano” esperisci subito una forma di ingiustizia seriale: perché dare al primo e non al secondo e al terzo?, e saresti un buon samaritano se “tirassi a sorte”? ed è possibile essere samaritano per tutti? E se dai solo ad uno la tua quota di tesoretto giornaliero, non ammetti per ciò stesso che “tutti non si possono aiutare”? E se ti fachirizzi contro il dolore altrui?
C’è poi, rispetto al prossimo a noi più vicino, quello che sta agli antipodi del nostro mondo: l’umanità dolente del terzo e del quarto mondo. Anche questo “prossimo lontano” ci interroga tutte le volte che cade sotto il nostro campo visivo. Sofri ammette con Rousseau che questo tipo di prossimo ci offre inaspettate vie di uscita. «Un filosofo ama i Tartari per essere dispensato dall’amare i propri vicini». Anzi più il nostro sguardo si distrae dalle sofferenze del nostro vicino, più si fissa in lontananze remote e inaccudibili, più si allevia la sofferenza dello sguardo spurgato dal dolore, a tal punto di non vedere più il prossimo che abbiamo sempre avuto tra noi, e che mai abbiamo visto.
Sofi scrive: « se si possa davvero praticare una morale dell’intera umanità, e se essa non vada a scapito della compassione concretamente sentita, è questione che la teoria non può sciogliere». Ma egli in pratica sembra propendere per una certa cautela circa un bene rivolto astrattamente verso l’intera umanità. Nelle pagine successive chiama in causa don Milani e il suo “realismo”. Don Milani, che era don Milani, quello dell’I care, scriveva in una lettera del 1966 a Nadia Neri: « … non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola. Ma non si può neanche amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio. E siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più… Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come premio». Alex Langer, il generoso attivista sudtirolese che alla fine di un tormento intimo levò la mano su se stesso e che voleva «essere tutto per tutti», narra che don Milani gli avesse in maniera stupefacente “dato proprio i numeri”: non si possono amare più di 3-400 persone. Alla domanda chi è il mio prossimo don Milani rispondeva con «amare concretamente» sembrandogli «amore universale» una litania contro natura.
In un altro passo Sofri, rispetto alla questione delle frontiere e alla massa dei “dannati della terra” che vengono a bussare alle nostre porte, sembra argomentare con realismo e finezza weberiana:
« Ai giorni nostri – ma la lezione è vecchia – un’etica della convinzione spinge a rifiutare ogni limitazione alla libertà di movimento degli esseri umani attraverso il pianeta; un’etica responsabile prende in conto la reazione xenofoba e perfino razzista che la rapidità e l’entità di un’immigrazione giovane povera e culturalmente distante è destinata a suscitare».
Certo, Sofri ricorda che resta comunque consigliabile guardarsi dai denigratori troppo zelanti dell’umanità astratta, perché dopotutto tale è anche l’umanità che verrà, quella del futuro, che è lontana dai nostri occhi, nel tempo, come quella degli antipodi lo è nello spazio.
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