Relazioni

Che vuol dire se nella discussione sul burkini ci dimentichiamo di Palmira?

19 Agosto 2016

Non mi sembra che ieri, a un anno di distanza, ci siamo ricordati di Palmira e di Khaled al-Asaad.

Perché?

La domanda non è provocatoria e a mio avviso ha a che fare – e anche parecchio – con la discussione sul diritto al burkini.

Premetto: difendo il diritto al burkini in spiaggia. Mi sembra che Costanza Jesurum abbia argomentato con chiarezza molti punti della questione. E forse, come scrive Francesca Mandelli qui tutta la questione ci riguarda anche perché vogliamo  “non essere come loro”.

Tuttavia, insieme, mi sembra che quella questione contenga più significati tra loro non univoci. E anche alcuni non detti.

Mi spiego: quell’abbigliamento, forse,“concede” (più che riconoscere) alle donne islamiche osservanti la possibilità di accedere a un luogo a lungo interdetto o vissuto come luogo “off limits”. Allo stesso tempo rappresenta il riconoscimento di un limite. Ovvero riconosce l’egemonia di un’interpretazione all’interno di un mondo culturale né omogeneo, né univoco. Il riconoscimento di quell’egemonia non è senza problemi. Ma questo, forse, riguarda il domani. Prima c’è un problema che ci riguarda oggi.

La discussione sulla libertà del burkini è interessante. Per le domande che pone, ma anche, come spesso capita, per quelle che rimangono “indietro”, mi sembra.

Considero prima quelle che pone.

La questione di ciò che è lecito in spiaggia potrebbe essere posta così: è la spiaggia un luogo pubblico?

Infubbiamente sì. Allora mi chiedo: perché ciò che è permesso indossare per strada non è lecito in spiaggia? Perché ciò che nessuno vieta per le strade di Marsiglia o di Nizza, diventa non lecito sulla spiaggia di Marsiglia o di Nizza?

Perché ciò che è considerato di primaria importanza in termini di sicurezza per le strade della città diventa “troppo esteso” e dunque necessario di nuove restrizioni in spiaggia?

Si potrà obiettare che non è vero il contrario ossia non ciò che è permesso in termini di abbigliamento in spiaggia è permesso o è consentito per le vie della città (insomma nessuno gira in bikini in un centro commerciale, o per le vie del centro), ma è vero tuttavia che è la soglia del minimo, la regola non scritta che ha segnato il limite (la stessa che sancisce la non liceità del nudo).

Nella discussione sul burkini, questa regola si rovescia, invece, e ciò che invece si applica, senza riconoscerlo esplicitamente è una nuova regola, identica, ma speculare a quella. Quella regola ora sancisce, invece, la soglia del “massimo”, oltre la quale non sarebbe lecito o ammesso spingersi.

Non è l’unico aspetto curioso o anche “ambiguo” di questa discussione.

Dentro alla realtà del burkini, infatti, non sta solo ciò che è concesso, ma sta anche un’idea di linguaggio del corpo in cui ciò che non si vede, ma che s’immagina è altrettanto ambiguo di ciò che “si mostra”. Un meccanismo in cui nascondere non significa annullare le linee del corpo, ma per certi aspetti esaltarle, secondo un gioco in cui erotico (e forse ancor più precisamente “erogeno”) non è ciò che si vede, ma appunto ciò che si “mostra” ovvero ciò che si “lascia vedere”. Una lezione in più, se mai fosse necessario, che l’immaginario è una macchina più potente del “veduto”.

Anche per questo il burkini è una soglia più ambigua o “al limite” per quel mondo che pure considera l’esposizione pubblica del corpo della donna un peccato o la violazione di un principio. E dunque anche per questo un segno dell’inquietudine di un mondo culturale che i difensori dell’Occidente dovrebbero essere in grado di saper cogliere o di mettere a tema non solo e non tanto quanto “pratica della libertà”.

Non è l’unica questione su cui mi sembra ci sia silenzio.

Ce n’è almeno un’altra su cui vale la pena riflettere. Ieri in particolare, anche se non valeva solo per ieri.

Rivendicare la pratica della libertà da parte di coloro che difendono il diritto al burkini sia nel mondo islamico, sia in quello non islamico (e quindi anche per me che ne scrivo qui) significa assumere la libertà come impegno.

La libertà non è un pasto gratis,  né solo l’acquisizione di margini di espressione o di raggio di azione, di parole e di atti, in precedenza non possibili, o interdetti. E’ anche, e forse soprattutto, responsabilità.

Libertà non è solo poter fare, ma anche riconoscere che altri facciano.

Ieri 18 agosto parlare di libertà per chiunque tenga questa parola significava saper coniugare il diritto al burkini con il diritto alla libertà. E la libertà, ieri, 18 agosto aveva un nome: Khaled al-Asaad, l’archeologo, custode di Palmira, torturato, ucciso, decapitato e “mostrato al mondo” nella violazione del suo corpo, un anno fa, il 18 agosto 2015.

E’ molto importante discutere e affrontare laicamente la discussione sul burkini. Quella discussione, tuttavia lo è, a maggior ragione, se insieme non si dimentica Khaled al-Asaad. O meglio se l’idea di libertà come diritto alla differenza e di richiesta del rispetto per sé si coniuga con il rispetto degli altri.

Non solo perché chiedere il rispetto per sé e non ricordare la violazione del corpo degli altri indica la disponibilità al sopruso. Ma perché quella morte e ciò che ha significato l’azione distruttiva di Daesh a Palmira non ha suscitato riflessione oltre lo sdegno.

Nel silenzio di chi  rivendica il diritto al rispetto della propria differenza nel mondo variegato, complesso e multiforme dell’Islam, anche di quello europeo, nel silenzio nostro, di noi multiculturalisti, come nel rumore dei molti “occidentalisti antiislamici” sta un punto problematico e non ovviabile di una discussione  che riguarda il futuro da un punto di vista interculturale.

Palmira infatti non è solo un bene culturale dell’umanità violato dal fanatismo.  Palmira per la sua storia e per la sua costruzione, per la lingua che circolava nelle sue vie in antichità – l’aramaico – era la testimonianza del “meticciato”.

Palmira era un simbolo e come tale andava distrutta da Daesh. Il problema è che tutti coloro che dichiarano di essere contro la violenza di Daesh, quando hanno parlato di Palmira lo hanno fatto esclusivamente in nome dell’archeologia, non in quello della sua storia, ovvero del valore simbolico del luogo.

Palmira non era solo un luogo degno di rispetto e Khaled al-Asaad un intellettuale operoso. Il tema non è solo il diritto violato. Il problema è l’immagine del codice culturale che vogliamo difendere.

Palmira è un simbolo, e un luogo, come scrive lo storico Paul Veyne, che esprime il concetto di  “saggezza straniera”. Un luogo che nel tempo produce  meticciato culturale. Ovvero un luogo di incontro tra codici culturali distinti che producono qualcosa che contemporaneamente è l’insieme di molte cose non condivise e la cui coabitazione produce una nuova forma di esperienza sociale e culturale. Palmira era una realtà in cui lo sciovinismo della monocultura – un’invenzione del XIX secolo oggi universalmente condivisa – non aveva casa.

Palmira, in altre parole, era il segno dell’intercultura, più che della multicultura.

Per questo Daesh la voleva distruggere. Per lo stesso motivo anche noi, occidentali multiculturali non amanti dello “scontro di civiltà” non l’abbiamo difesa più che tanto, mentre quelli amanti dello “scontro di civiltà” l’hanno difesa, ma solo come simbolo distrutto, annullando, comunque non riconoscendo e non volendo riconoscere, il significato di quella storia, perché come simbolo vivo non nutrivano nei suoi confronti alcuna simpatia.

Un anno dopo è significativo che Palmira sia un nome senza eco. Anche per questo tanto la difesa del diritto alla differenza come quella del diritto al rispetto, per quanto condivisibili, mi sembrano emettere un suono ideologico.

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