
Relazioni
Ancora oggi si uccide un fascista
Una memoria che non fa giustizia perché prescinde dal riconoscimento dell’umanità delle vittime e una che ci prova
Voi non pensate che un fascista sia uno che sbaglia. Pensate che sia uno da ammazzare, no? (Gianluigi Melega)
Il prossimo 29 aprile saranno cinquant’anni dalla morte di Sergio Ramelli.
Sono in corso polemiche ovunque in attesa del corteo che si conclude ogni anno con i bracci tesi e il “presente” in via Palladini a Milano, luogo della morte.
Ai post fascisti al governo delle città è arrivato l’ordine di marcare ogni piazza con dediche e monumenti proprio quest’anno.
Io penso che un risarcimento della memoria per questo giovane vittima di una violenza ingiustificabile e orrenda, va assolutamente realizzato. Resta da capire come tutto debba essere fatto.
A Cinisello Balsamo, in provincia di Milano, la giunta di destra gli dedicherà la piazzetta antistante il comune. Il sindaco della Lega, Giacomo Ghilardi, in commissione toponomastica ha dichiarato: «L’intitolazione della piazza a Sergio Ramelli rappresenta un gesto di profondo significato, che va oltre il ricordo di una singola figura».
Testuale: è una figura da superare. Non un giovane, non una vita, una persona. Non la vittima di un odio che continuò addirittura dopo la sua morte con il pestaggio del fratello e le minacce alla famiglia.
E non si trattava, come ancora si ripete falsamente, di un picchiatore fascista. In nessun processo ai suoi assassini fu mai menzionato un solo atto di violenza a lui attribuibile e come è facile intuire, se ci fosse stato, gli avvocati dei suoi carnefici l’avrebbero riferito, eccome.
Molto utile ritengo sia la lettura del libro, appena uscito, dello scrittore Giuseppe Culicchia, Uccidere un fascista. Sergio Ramelli una vita spezzata dall’odio, Mondadori.
E’ il terzo racconto dello scrittore torinese dedicato agli anni di piombo.
Tre libri che si parlano tra loro e così in quest’ultimo spesso si fa riferimento soprattutto al primo, Il tempo di vivere con te, scritto con un impegno di sofferenza e di passione spesso evocato da Culicchia perché implicato nella vita del protagonista, suo cugino Walter Alasia. Ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia durante un tentativo di arresto, una volta scoperto dagli inquirenti che aveva fatto la scelta di militare nelle Brigate Rosse.
Sergio e Walter, due giovani milanesi, le cui vite Culicchia cerca di mettere in comunicazione perché siano spogliate dall’aura della simbolizzazione eroica che le circondano.
Le BR a Milano si chiamarono colonna Walter Alasia.
Dei riti per Ramelli ho già detto.
Rendere simboliche le morti di questi due ragazzi è far loro violenza ancora una volta. Significa deprivarle della loro dignità, cancellarne lo spessore umano, emotivo, affettivo fatto di interessi, passioni, legami che le rende insostituibili e uniche.
C’è una descrizione molto efficace che Culicchia compie del processo di disumanizzazione cui fu sottoposto Ramelli: «e così anche tu Sergio, in quanto “fascio”, diventasti non soltanto un obiettivo legittimo, ma letteralmente una non-persona. Una non-persona che per via delle sue idee politiche non aveva diritto di studiare, di andare a scuola e neppure di uscire di casa, o di frequentare un certo bar. Una non-persona che per via delle sue idee politiche, quelle idee che la rendevano altra cosa da un essere umano, poteva, anzi doveva, essere perseguitata, schiacciata, eliminata».
E’ solo la materialità della violenza fisica a distinguere i due processi: quello che porta al pestaggio in nome dell’antifascismo militante (la strategia delirante del servizio d’ordine di Avanguardia operaia) e quello che conduce a parlare di Ramelli, come fa il sindaco di Cinisello Balsamo, come di “una figura da superare”. Intesa di visioni speculari, apparentemente contrapposte. In realtà entrambi i processi sono gemelli della stessa madre: la propaganda politica.
Sento di essere profondamente grato a Giuseppe Culicchia per i suoi racconti. E’ consapevole che corre un rischio. Le ultime righe del suo libro lo raccontano: «grazie a Margherita C., che mi ha incoraggiato mentre lo scrivevo ha letto per prima questo libro: “Vedrai stavolta ti attaccheranno tutti”. Et voilà».
Il suo coraggio motiva tutti noi a non rassegnarsi al mondo che ci circonda per nulla migliorato rispetto agli anni di piombo: «Forse mai come oggi, in un’epoca di massimo sviluppo delle comunicazioni, gli uomini hanno conosciuto tante difficoltà a dialogare, tanto panico di fronte alla differenza e alla diversità rappresentate dall’altro, tanta chiusura in se stessi e tanto integralismo per evitare il problema del rapporto con l’altro» (J. F. Six).
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