Calcio
¡Que viva Maradona! Contro tutti i moralismi
«Barrilete cósmico (aquilone cosmico), ¿de qué planeta viniste?», si sciolse in diretta tv, felicemente esausto e oramai in lacrime, il cronista uruguaiano Victor Hugo Morales. Diego Armando Maradona aveva appena segnato il 2 a 0 per l’Argentina, dopo aver attraversato quasi tutto il campo e fatto fuori da solo l’intera squadra inglese. Da quando aveva ricevuto la palla nella sua metà campo, erano trascorsi poco più di 10 secondi scanditi in 44 passi e 12 tocchi al pallone. Furono i migliori 10 secondi della storia del calcio e di ogni gioco di bambini giocato dagli adulti.
Su quell’aquilone cosmico comparso d’improvviso allo stadio Azteca di Città del Messico, inutilmente s’era abbattuto un diluvio di avversari. E a quell’aquilone in molti si aggrapparono come bambini, mentre Victor Hugo Morales piangeva in diretta la gioia di mezzo mondo e pronunciava la cronaca più bella di tutte, bella quasi quanto il gol che stava raccontando: «Barrilete cósmico ¿de qué planeta viniste? ¡Para dejar en el camino a tanto inglés! ¡Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina! Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas». Grazie dio per il calcio, per Maradona, per queste lacrime. Era il 22 giugno del 1986 e si giocava Argentina-Inghilterra, per i quarti di finale del campionato del mondo. Quel mondiale poi lo vinse l’Argentina, e non s’era visto mai un calciatore capace di vincerne uno tutto da solo, neppure Pelé.
Quel gol eroico e quella cronaca così letteraria e folle furono per molti un’allegra resa infantile e quasi rivoluzionaria. Sembrò che si proclamasse in quello stadio che bambini e aquiloni da sempre hanno ragione. Sembrò quasi che si potesse rovesciare il mondo. E almeno per un momento ogni cosa parve possibile, persino la felicità.
Quel giorno si disse anche che la mano de Dios si fosse abbattuta sulla squadra inglese, ma questo perché in quella stessa partita Maradona realizzò un altro gol altrettanto straordinario, e però cinico e furbo, marcando con la mano l’1 a 0 per l’Argentina. Fu questo, al contrario dell’altro, un atto di rivolta rabbioso che forse leniva qualche ferita non soltanto calcistica, poiché la guerra delle Falkland/Malvinas non era già storia ma ancora cronaca.
Si regolò insomma qualche conto con l’Inghilterra, in quella partita, e con la premier Margaret Tatcher, lady di ferro del neoliberismo che si andava affermando ovunque, e in Gran Bretagna sul corpo sconfitto dei minatori, vinti dopo uno sciopero lungo un anno che avrebbe potuto cambiare la storia. E non soltanto quella inglese.
Tuttavia, nonostante la mano de Dios, alla fine la partita vera, quella della grande storia, la vinse Margaret Tatcher, come altrove vinceva Ronald Reagan. Il mondo furono loro a cambiarlo e ancora i loro epigoni se lo tengono stretto. Quei due gol geniali a Città del Messico restarono una gioia effimera.
Maradona insomma non era un dio. Era invece un essere umano, geniale e imperfetto e che visse parte della propria esistenza sprofondato in un abisso nero del quale la frequentazione della cocaina non fu neppure la parte più inquietante. Fu protagonista e spettatore della sua stessa, vertiginosa cupio dissolvi nella quale si mescolavano anche certe frequentazioni criminali, i rapporti burrascosi con le donne, la violenza.
Maradona era insomma un catalogo esistenziale che non si risparmiò nulla, nel bene e nel male, delle infinite possibilità umane, come accadde appunto in quella partita paradigmatica giocata allo stadio Azteca durante la quale, attraversando il campo di gioco, percorse l’intero spettro dell’animo umano, dalla gioia infantile fino alla rivolta e all’infrazione di ogni regola, quella scritta e quella morale: l’allegria del barrilete cósmico e la rivalsa cinica della mano de Dios.
«Maradona – scrisse Eduardo Galeano – portava un carico chiamato Maradona». Maradona – ha detto lo storico Alessandro Barbero – ha incarnato l’archetipo secondo cui «chi ha troppo genio in qualche modo lo paga». E infatti i propri errori li ha pagati. Gli è toccato scontarli persino da morto, lui che mai si propose come un modello e che anzi da molto tempo trascinava un’esistenza dolente e allucinata, forse cercando perfino redenzione nelle parole che di tanto in tanto, affidava a qualche giornalista.
Di fronte al genio che si autodistrugge ogni giudizio è lecito. Moralismo e santificazioni lo sono molto meno. Maradona già nel corso della sua carriera aveva scatenato odi e amori fortissimi. Ciò che è accaduto alla notizia della sua morte è andato molto oltre, dipanandosi tra santificazione e furore moralistico.
La santificazione, peraltro, già avvenne quand’era ancora vivo. Non fu un buon affare per nessuno. Quella di queste ore confonde le idee e maschera una certa dose di ipocrisia. Il rapporto con Napoli, ad esempio, fu in realtà meno lineare di quanto oggi in tanti rammentino. Allo stesso modo, non molti sembrano ricordare che Maradona fu odiato «in un modo che oggi – ha scritto Massimilano Gallo sul Napolista – è impossibile rendere». E «quante volte – ha scritto Francesco Prisco sul Sole 24 Ore – durante e dopo la carriera, Maradona è stato usato e buttato via dal sistema-calcio? La pantomima di Usa ’94, con la sua nuova positività all’antidoping, ce la ricordiamo benissimo, così come ci ricordiamo la sua battaglia contro la Fifa di Blatter». Di quell’odio, una significativa riduzione plastica stava in ciò che accadeva negli stadi quando arrivava il Napoli, soprattutto al Nord. Quegli insulti non erano soltanto un fatto sportivo. Eppure, ora i critici di ieri son tutti lì ché, evidentemente, la morte – ha scritto ancora Gallo – «ha questo potere. In cambio dell’addio definitivo, ti si concedono smancerie che quando eri in vita non sono mai state nemmeno pensate».
Allo stesso tempo, si è dovuto assistere anche al fenomeno opposto: il rinculo moralista e la condanna indignata e senza appello di Maradona, rilanciata persino sulla sua carcassa esausta e vinta.
Alcuni hanno semplicemente rivolto verso un corpo esanime la rabbia che forse nutrono verso coloro che quel corpo hanno voluto santificare già in vita. Ma i più si sono semplicemente messi in posa, proclamando l’assoluto dello scandalo rappresentato dalla vita di Maradona, includendo a volte anche un giudizio sprezzante su Napoli, sebbene non esplicitato. Lo hanno fatto con lo zelo petulante dei fondamentalisti dell’inutile; ed è uno zelo particolarmente inquietante poiché liberato a cadavere ancora insepolto.
E, però, fortunatamente, la vita è più complessa e bella di questa cupa morale dispensata all’occasione. Chi si scandalizza, scriveva Pier Paolo Pasolini, è sempre banale. Del resto, il moralista immagina che si possa non sbagliare mai, e s’illude. Ma, soprattutto, il moralista non ha il coraggio né la fantasia degli aquiloni cosmici: non parla per cambiare il mondo, tende a conservarlo così come lo ha trovato, con tutte le sue asprezze e le sue ingiustizie, e ambisce a una normalità che è una finzione borghese. Il moralismo è l’arma del potere, laico o chiesastico che sia, e il moralista ne è lo strumento.
Non a caso a Maradona il potere gliela aveva giurata. «Lui gliene cantava di tutti i colori – scrisse Eduardo Galeano nel suo Splendori e miserie del gioco del calcio – e questo aveva il suo prezzo; il prezzo si incassa in contanti e senza sconto. E lo stesso Maradona regalò loro la giustificazione, per la sua tendenza suicida a servirsi su un piatto d’argento in faccia ai suoi nemici e per quella irresponsabilità infantile che lo spinge a precipitarsi in tutte le trappole che si aprono sul suo cammino».
Fu ciò che accadde anche nell’estate del 1994 quando, nel corso del mondiale giocato in Usa, si concluse malamente la sua storia con la nazionale Argentina per l’esser risultato positivo a un controllo antidoping sul quale ancora oggi non si placano le polemiche.
Di quell’estate americana si ricorda però soprattutto un gol, il suo ultimo con l’Argentina. Fu anche questo un gol strepitoso e anche questo venne accompagnato da un’altrettanto strepitosa cronaca di Victor Hugo Morales il quale, con uno sfrenato scioglilingua costruito sui nomi del calciatori argentini, raccontò il flipper furioso, quasi un baccanale, che si accese al limite dell’area di rigore della squadra greca prima che Maradona calciasse il pallone in rete. Poi, strabuzzando gli occhi, corse verso la telecamera a bordo campo per ruggire di fronte al mondo ogni suo sentimento. Fu, quello, l’ultimo guizzo, l’inizio della fine e il primo giorno di una vita poi tirata avanti spesso penosamente per i 25 anni che vennero.
Nel 2008 Emir Kustirica su Maradona realizzò un documentario. Dopo la sua morte gli è stato chiesto quale altro calciatore racconterebbe in futuro. «Nessun altro», è stata la risposta del regista di Sarajevo. «Cosa potrei dire di Cristiano Ronaldo? È perfetto, guadagna una montagna di soldi, ma dov’è la personalità? Che storie ci potrebbe raccontare? Nessuna».
Ed è proprio questo il punto: l’abisso può assumere forme molteplici. A volte persino quella della perfezione. Nella vita di alcuni, pochi a dire il vero, a quell’abisso corrisponde però un contraltare d’esistenza e genialità che fa della vita una cosa più straordinaria ancora, nonostante spesso a prevalere sia poi l’abisso che di quella stessa esistenza si nutre. Da quell’impasto nascono gli eroi, i geni, i poeti, spesso maledetti. E fu, appunto, il caso di Maradona.
D’altra parte, «anche Achille era pieno di difetti, e anche Orlando, ancor prima di diventare furioso», ha osservato ai microfoni dal Tg3 Alessandro Barbero, quasi rispondendo a chi, a ridosso della morte di Maradona, andava affermando che non era proprio il caso di piangerlo o esaltarlo poiché il suo non fu un bell’esempio. E pensare che invece «abbiamo avuto il privilegio – è ancora lo storico a parlare – di vedere come nascono leggende che forse dureranno nei secoli: l’uomo grande, segnato dagli dei, e però segnato anche in modo negativo, che sciupa il proprio dono, che si autodistrugge».
Se non si fosse capaci dello stupore necessario per considerare le cose anche da questa angolazione, e se proprio non si riuscisse a stemperare lo zelo moralistico, considerando anche il dono insieme alla distruzione del dono, allora si rischierebbe di dover gettar via anche Iliade e Odissea, e di mettere al bando Caravaggio, e di mandare al rogo ogni cosa impura e imperfetta che l’essere umano abbia prodotto nella sua storia. E, però, per questa strada al rogo ci finiremmo tutti poiché è proprio questo ciò che siamo: sbagliamo, cadiamo, sbandiamo, ci rimettiamo in sesto e poi cadiamo ancora, sperando che ci sia qualcuno, lì sul fondo, anche soltanto per farci una carezza.
Siamo esseri umani e dunque imperfetti. E lo siamo proprio come lo furono anche Caravaggio e Maradona: siamo soltanto decisamente meno geniali di loro, sebbene animati da ambiguità persino più incomprensibili poiché ammiriamo Ettore ma siamo fatti della stessa carne dell’Andromaca che consiglia ad Ermione, figlia di Elena di Troia, di accontentare Neottolemo in ogni cosa. Sarà meglio allora spogliarci di ogni moralismo, recuperare almeno un po’ di quella pietà che sarebbe d’uso di fronte a un vinto che visse d’eccessi e di quelli morì.
E, anzi, piuttosto che abbandonarsi a certi giudizi inutilmente sprezzanti su Maradona – rilasciati forse per l’ansia di dimostrare d’esistere anche noi, o per l’invidia che ci spinge a inchiodare il genio alle sue inevitabili mediocrità – si potrebbe semplicemente salutarlo.
Si potrebbe farlo con grazia, magari rubando le parole di quella specie di preghiera laica che Victor Hugo Morales recitò in diretta quella sera di 35 anni fa allo stadio Azteca di Città del Messico, raccontando dell’aquilone cosmico che sul campo ricamava la nostra allegra resa infantile. Ecco, allora: «Gracias Dios por el fútbol, por Maradona. Por estas lágrimas». Sono lacrime che bruciano di sale, sono imperfette ma umane, e sono ancora orgogliosamente infantili.
Devi fare login per commentare
Accedi