Società

Quanto ci fa comodo il rom brutto, sporco e cattivo

11 Novembre 2014

Dolores, Damiano, Orlando, Gordon, Concetta, Manuel, Claudia, Laura, Rebecca, Susi, Rasid. Vivono in mezzo a noi, fanno i fotografi, i registi, gli artigiani, i camionisti, gli operatori ecologici, gli infermieri. Lavorano, pagano le tasse, abitano nelle loro case, fanno la spesa, vanno al ristorante. E, insieme a tutto questo, sono rom. Li racconta in un calendario l’associazione 21 luglio. Non si tratta di eccezioni: se ne contano almeno 130mila in Italia. Eppure non li vediamo. Ma notiamo bene ogni giorno le donne che chiedono l’elemosina, i borseggiatori, i bambini che cantano nella metro per qualche spicciolo. Ed è su loro che appiattiamo il nostro giudizio e lo estendiamo su un popolo intero. Perché così ci fa comodo. Lo zingaro che ci somiglia, non ci piace.

E infatti quando si fanno tentativi di integrazione c’è sempre chi, nella società maggioritaria, si ribella. E’ successo qualche settimana fa a Monserrato, in provincia di Cagliari. Due donne rom sono state inserite in una scuola come bidelle nell’ambito di un progetto europeo e subito alcuni genitori hanno protestato e minacciato di trasferire i figli in altro istituto. A nulla è servito spiegare che non si trattava di un’assunzione e che le signore sarebbero state retribuite con finanziamenti europei. “Fate lavorare le mamme sarde” è stata la risposta che non ammetteva ulteriori repliche. Il sindaco Gianni Argiolas però ha tenuto il punto e tacciato la protesta di razzismo. Una delle due donne ha commentato: “Rubare ovviamente non si può, chiedere l’elemosina non sta bene e se lavoriamo è ancora peggio”.

Quando a Roma nel 2013, per una “svista” del Comune, si era presentata l’occasione di far partecipare anche alcune famiglie rom alla gara per le case popolari è scoppiato un putiferio. Il nuovo bando prevedeva infatti di dare spazio ai nuclei italiani e stranieri in situazioni precarie da più di un anno, in strutture riconosciute “provvisorie”. Ma non appena si è fatto notare che questa descrizione calzava a pennello sugli zingari dei campi, i cosiddetti “villaggi attrezzati” sono diventati, tramite circolare, “strutture permanenti”. Con buona pace dei cittadini che chiedono da anni di chiuderli. E allora: non vogliamo i campi, ma nemmeno che stiano nelle case popolari.

Una terza via, in realtà, esiste. Ed è stata già praticata in Italia, come racconta sempre l’associazione 21 luglio nel rapporto “Senza luce”. A Messina e a Padova le amministrazioni hanno realizzato progetti di autocostruzione spendendo molto, ma molto meno di quanto si impiega nella Capitale per sostenere un villaggio attrezzato come quello di Castel Romano che nel 2013 è costato oltre 5 milioni di euro. In Sicilia invece con 145mila euro i rom sono stati formati professionalmente e hanno reso abitabili dei locali in disuso non lontani dal centro della città. In Veneto si è partiti da zero: le famiglie sinte sono state affiancate da esperti edili e hanno realizzato le loro case su un terreno comunale. Costo dell’operazione poco più di 640mila euro e ora i rom pagano un affitto calcolato in base al reddito.

Queste, a differenza dei 130mila rom invisibili e perfettamente inseriti nella società, sono però eccezioni. Perché, tornando al discorso iniziale, i rom brutti, sporchi e cattivi che appiccano roghi nei campi una loro utilità ce l’hanno. Servono ad esempio a Matteo Salvini ad attirare i voti “di pancia” per la Lega, ma anche a noi tutti per sentirci “ a posto”, per relegare nello zingaro tutto quello di noi che non ci piace: la povertà, la precarietà, la furberia, l’abitudine a rubacchiare. Se il rom diventa uno di noi, allora dovremo riassumerci la responsabilità dei nostri difetti e farci i conti, una volta per tutte. (Foto di Giordano Pennisi)

 

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